Caleb Sigà: versione online

un racconto lungo di Lorenzo Fabre
(disponibile anche su Wattpad)

Questo racconto è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.

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PROLOGO

Codesta Vicenda è tratta dal diario del Venerabile Livàn Pascià. Che sia ammirato nel profondo.

Giorno 48
Da qualche parte nel Mare del Sud

Caleb si trascinò verso il parapetto di legno, confuso. Il sangue gli colava sugli occhi e gli impiastricciava il volto e i capelli. Cercò a tentoni la spada: non la trovò.

Attorno a lui, tutto era offuscato, come in sogno. Gli ronzavano le orecchie, ma poteva udire nettamente il clangore del metallo, le urla, l’odore del legno bruciato.

Qualcuno lo prese per le ascelle, lo strattonò e lo tirò su in piedi.

«è perduta! La nave è perduta!» gli urlò Degro in faccia, sputandogli mentre lo diceva. «Buttati a mare o…»

Caleb lo vide sgranare gli occhi e lasciare di colpo la presa. Crollò di nuovo sul pavimento di legno del ponte, e Degro gli franò addosso.

La testa girò per un istante, poi i suoni divennero un eco lontano e la pace, finalmente la pace, si impossessò di lui.

Sono morto anche io” pensò. “Allora non è poi così male

Cap. 1 – Le sciabole si giocano la Luna.

Giorno 1
Il Porto di Lenvar

«Hai preso la tua roba?» disse suo padre osservandolo mettere il piede sulla passerella.

«Certo, ho tutto» rispose Caleb.

«Ti avevo detto di non portare armi. Siamo mercanti di allume ora, non corsari» aggiunse il padre, contrariato.

«Hai fatto il corsaro per una vita: ora te la fai sotto? Hai paura che la Marina ti dica qualcosa? Potrebbero servirci queste armi: per difenderci magari, se non per attaccare» replicò Caleb.

«Ho assunto dieci mercenari per ogni nostro legno. Certo: tu te la cavi con la spada, ma ce ne vogliono due come te, per farne uno solo di loro!» gli rispose il padre con disprezzo.

Caleb lo guardò: non poteva davvero credere di essere stato generato da quel bastardo odioso e insensibile. “No, di sicuro non è lui mio padre: mamma si sarà sbagliata. D’altra parte si è scopato più donne lui che un’armata di lanzi werdanni.

Osservò la sua spada: la madre gliel’aveva fatta forgiare dal più bravo armaiolo di Lenvar. Di forma ricurva in cima, come quelle dei pirati di Mali. Gli piaceva: mamma proveniva da Khalim e lui si sentiva un po’ di quella cultura, più che un semplice lenvare.

«Non dici niente?» ribadì il padre. «Lo vedi? Non sei neanche buono a difenderti a parole, figurati con una spada! Sei proprio una delusione, figlio mio.»

«Vorrà dire che saremo 10 mercenari e mezzo, allora. Meglio che niente.»

Caleb Sigà scostò il padre con una spallata sufficientemente provocatoria; salì la passerella e giunse a bordo.

Contò fino a tre, a mente, senza voltarsi. “Adesso mi arriva un pugno o un ceffone” pensò. Uno di quei bei manrovesci che il padre gli dava quando si incazzava o era ubriaco.

Quattro. Poi cinque. Sei. Contò fino a dieci… ma lo schiaffo non arrivò.

Voleva solo vedere se mi sarei opposto. Se mi lascia portare la spada a bordo, vuol dire che si caga sotto. Stavolta siamo noi a dover temere i pirati. Bah… chi cazzo la vorrà poi, questa bagnarola.

La poco appetibile spedizione dei Sigà era composta da due galee sottili e una galea grossa, carica di allume da consegnare. L’ammiraglia, la Matrona era lenta e vecchia, ma era la sola galea grossa rimasta alla sua famiglia. Il Capitano Avidan Sigà ormai aveva perso tutte le navi che usava in passato per combattere in nome dei D’Angora: ormai gli restavano quei tre legni tutti tarlati e incrostati di “denti di cane”. Persino Saveras Salmas aveva navi migliori quando partì per il Nuovo Mondo, e tutti lo avevano schernito per la loro bassa qualità: figuriamoci quanto sarebbero stati presi per il culo i Sigà con quelle tre specie di scialuppe.

Con quell’ultima spedizione però, avrebbero potuto fare abbastanza quattrini da comprare una quarta nave o sostituire la galea grossa e ripartire con “l’impresa di famiglia”: un po’ mercanti, un po’ pirati, un po’ corsari. Si faceva così a Lenvar, quando si lasciava la sicurezza del porto per andar per mare.

Il quartiermastro leggeva dei nomi da una pergamena, storpiandoli tutti: non ne diceva uno giusto. Doveva aver imparato a leggere da poco. Ogni tanto, qualche marinaio con le palle girate interveniva correggendolo oppure lo prendeva in giro. O prendeva in giro la vittima del nome storpiato.

«Caleb Sigà!» urlò il quartiermastro.

L’ha detto giusto. Sarà perché sono figlio del capo“, pensò Caleb. «Sono io» rispose, buttando il suo sacco sul ponte.

«Sei un marinaio o un soldato?» chiese il quartiermastro fissando la spada ricurva.

«Entrambi.»

«Tuo padre ha detto che le due cose devono restare separate. O combatti o navighi».

«Mettiamola così» rispose Caleb: «finché navighiamo sono un marinaio. Quando ci salteranno addosso sul ponte i pirati maleschi, diventerò un soldato. Che dici: ti va, signor Deis?»

Il quartiermastro grugnì sputando sulle assi scure e fece cenno a Caleb di andare verso poppa.

Caleb sorpassò un paio di marinai che stavano arrotolando una gomena. I due lo guardarono storto. “Mi odiano. Pensano che mi farò il viaggio da privilegiato. Coglioni: non conoscono proprio papà: saranno novellini“.

«Chi ti ha detto di salire a bordo della capitana?» gli urlò contro un tizio.

«Quello che ci ha messo al mondo» fu la risposta di Caleb.

Era il terzo schifoso comitato di benvenuto che riceveva da quando era a bordo: doveva essere una di quelle giornate in cui girarsi dall’altra parte nel letto e non alzarsi manco.

«Non lo chiamare così! IO sono suo figlio: tu sei solo un bastardo, nato da un’infedele!» E nel dirlo, il fratello mise mano alla sua sciabola.

Caleb non disse nulla. L’uomo lo sfidava e guardava l’elsa della sua lama come se gli dicesse: “sguainala, coraggio“.

Mamma non sarebbe contenta che io piantassi il suo regalo nel cranio di quell’idiota“, pensò Caleb. Perciò rispose:

«Almeno mia madre è nobile: la tua probabilmente stava tutta la sera con la testa sotto il tavolo di qualche taverna… ad arrotondare» rispose.

Il fratello sguainò la spada ma Caleb fu altrettanto svelto: le armi danzarono per qualche istante, luccicando al sole.

Una sciabola volò alta nel cielo: ricadde giù a picco rimbalzando un paio di volte e poi stette ferma, immobile, come immobile era l’avversario che guardava Caleb incredulo per un istante. Poi l’ira salì sul volto che divenne paonazzo, mentre il vincitore del duello lo fissava ridendo. Caleb puntò la sua spada contro il fratello: stava letteralmente godendo dentro di sé.

«Idioti!» gridò qualcuno dietro di lui. Quel tanto che bastò a distrarlo.

Le nocche gli si piantarono profondamente nella guancia, ma tra di esse riconobbe bene l’anello di metallo con il simbolo di famiglia, la cavalletta, che suo fratello portava. Che colpo tremendo fu.

Quando Caleb si riprese e si rialzò, vide che Fidan, il suo fratellastro, sanguinava dal labbro quanto lui. Le loro due armi, invece, se ne stavano immobili e vicine, distese sul ponte: si toccavano appena, come due amanti che avevano appena terminato un focoso amplesso.

«Non mi ricordo di averti colpito» disse Caleb toccandosi la bocca. «Sei così scemo che ti sei fatto male da solo, “fratello”?»

Il padre stava fermo in piedi tra loro due, rimettendosi un guanto. Avidan Sigà era abituato alle risse tra i suoi molti figli. Le sedava tutte allo stesso modo, gonfiando di botte ambedue i contendenti. Nessuno di loro, quando lui alzava le mani, osava contrastarlo: tutti avevano troppa paura. Lo sapevano bene cosa succedesse, a farlo incazzare davvero. Lo sapeva anche Tesio, il primogenito di Avidan. Prima di morire in un naufragio aveva imparato a governare una nave senza le dita della mano sinistra: il padre gliele aveva mozzate per “una divergenza profonda”, come la definiva sempre. Quando qualche figlio faceva lo stronzo, Avidan citava sempre la mano di Tesio, e tutti stavano zitti.

Finito di risistemarsi, Avidan disse:

«Sì: tua madre era una troia, Fidan, te l’ho sempre detto. Ma la migliore ragazza da taverna che ho mai avuto: ci sapeva davvero fare. Per questo, quando sei nato, ti ho preso con me; glielo dovevo proprio. E la madre di Caleb, che tu chiami ingiustamente infedele, ti ha accudito come fossi figlio suo, quando ti ho riportato a casa.»

Avidan guardò Caleb. A lui non piaceva che si parlasse di sua madre.

«Lei sapeva che in qualsiasi porto io fossi approdato, l’avrei sempre infilato tra le cosce di qualcuna. Lei lo ha sempre accettato. Ah, piscio di Sedune: quanto adoro quella donna! A volte mi faceva davvero sentire in colpa quando tornavo con qualcuno dei vostri fratelli in braccio.»

«Caleb è un bastardo! Tu amavi mia madre, non la sua!» ribadì sbraitando Fidan.

«Che coglione che sei, Fidan» rispose Avidan ridacchiando. «Tua madre era solo brava! Io non ho amato un bel cazzo di nessuno, tranne me!» aggiunse. «E nessuna delle mie donne mi ha mai amato: non si può provare amore per me. Fascino forse: se ti vuoi fare una bella scopata, sono l’uomo giusto! Tu sei un bastardo tanto quanto Caleb, visto che non ho sposato nessuna delle vostre madri. Ma a voi che diavolo importa? Siamo tutti dei bastardi, anche io e tutti i marina!.»

Avidan passeggiò in mezzo al ponte: aveva attirato l’attenzione dell’equipaggio. Gli piaceva. Gridò più forte, per farsi sentire: «In mezzo al mare, non c’è posto per i nobili, i Crociati o i poeti. Qua si fa sul serio, se vuoi sopravvivere. Solo i bastardi sopravvivono in mare! Ficcatelo bene in mezzo a quella testolina piena di stronzate che ti ritrovi, Fidan!»

Avidan andò sul cassero di poppa salendo con rapidità i gradini tutti consumati e alzò ulteriormente la voce. Si mise una mano sul cavallo dei pantaloni mentre gesticolava con l’altra.

«Voi due, figli miei, siete nati dal serpente di Avidan Sigà e quindi siete due Sigà pure voi, perché io ho voluto così. Ora: mi dovreste un po’ di riconoscenza per avervi infilato dentro il ventre delle vostre mamme e per avervi pure dato il mio cognome. Dico bene, uomini!?»

«Dici bene capitano!» disse un marinaio. E a lui si accodarono risate e cenni di approvazione.

«Cazzo, forse sono pure vostro padre, marinai! Magari dovrei dare a tutti il mio cognome, per essere sicuro! Dite un po’: vorreste essere dei Sigà?» urlò Avidan.

«Ah ah, certo! Perché no, Capitano!» disse di nuovo il marinaio che aveva parlato prima.

«Certo, caro Degro: ma tu mi sei venuto fuori femmina, anche se hai la barba!»

Tutti risero, a parte l’interessato.

Avidan, terminato lo spettacolo, scese di nuovo tra i figli.

Ci sa fare quel porco. Altrimenti non avrebbe convinto quasi cento uomini a seguirlo in questa pazzia di spedizione“, pensò Caleb.

«Fidan, tu sei bravo a fare il capitano: ti ho insegnato bene» disse Avidan al figlio. «Un giorno prenderai il mio posto; quindi tanto vale cominciare da oggi. Vai a bordo della Puledra là davanti e guidaci. Tuo fratello Sigurd invece prenderà il comando della Spezzaremi, come sempre.»

Fidan annuì, e raccolse la spada, gettando un’occhiataccia a Caleb.

«E tu, piccolo stronzo,» disse Avidan a Caleb, «se ti aspetti che ti dica che combatti bene, vedi di campare cent’anni.»

«Ho appena disarmato uno dei tuoi capitani» ribatté Caleb.

«E ti sei fatto distrarre come un giovane verginello che sente per la prima volta profumo di donna» rispose il padre. «Vuoi essere un mercenario? Stronzate. I mercenari muoiono a trent’anni, nel fango di un campo di battaglia; gli assentisti come noi, combattono sul ponte delle navi e vivono riccamente!»

«E allora perché tu hai le pezze al culo?» gli rispose Caleb. Non attese replica e andò sottocoperta.

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Cap.2 – La mia è restata dov’era

Giorno 104
L’ex palazzo Imperiale della Città di Dreniane

Quando l’eunuco batté le mani, tutti fecero silenzio. Caleb si sedette sul bordo della finestra interna e sbirciò attraverso la griglia. Gli infedeli come lui non potevano vedere la danza delle odalische da vicino: si sarebbe beccato cinque frustate per ogni occhio sano.

Un assolo ritmato di darbuka accompagnò l’entrata delle odalische, vestite di sensuali abiti colorati. Provenivano da tutte le parti del Continente e di Mali: bionde, castane, dalla pelle mora o pallida come il latte. Tutte schiave, catturate o vendute.

Caleb le osservò per un po’, annoiato. Dapprima si esibirono tutte insieme, facendo danzare i loro ventri all’unisono. Poi l’eunuco batté nuovamente le mani: era il momento degli assoli, quello in cui le ragazze avrebbero dato il meglio. Ognuna voleva mostrare quanto valesse, affinché qualche Bey o Pascià potesse renderle le sue concubine o magari mogli.

Questa volta fu il rebab a suonare, con le sue note malinconiche che sapevano subito d’oriente. Dapprima entrò un’odalisca dalla pelle ambrata, vestita di una gonna lunga e scarlatta; indossava una fascia piena di sonagli che le copriva i seni e le lasciava scoperto l’addome e le spalle. Da una striscia di tessuto legata sulla fronte ricadeva un velo che le oscurava parzialmente il volto. Ballò con grande passione.

Poi venne una donna bianca, timida, che ballò in maniera davvero modesta. L’eunuco fece terminare anzitempo il suo numero, e lei scappò piangendo.

Finalmente, arrivò quella che Caleb aspettava: vestita di verde, dalla pelle pallida e i capelli colore del miele.

Era bella, anche se con il velo non si vedeva bene: ma lui l’aveva intravista in volto tre giorni prima. Ballava con grande sensualità: agitava il ventre come se non avesse mai fatto altro nella vita. E ad ogni movimento, Caleb sognava di rotolarsi tra le lenzuola con lei: sentiva gonfiarsi, laggiù in basso.

Ricevette un colpetto sulla spalla: Yusul, come sempre, doveva rompergli i coglioni sul più bello.

«Devi proprio?» gli disse Caleb.

«E’ ora» disse l’eunuco.

Puzzava di vino. Yusul non poteva bere o lo avrebbero frustato. Ma lui se ne fregava: d’altra parte gli avevano già tagliato le palle, peggio di così che potevano fargli?

Piscio di Sedune, è ora”, pensò Caleb. Lo disse ad alta voce: “Piscio di…” poi si fermò: suo padre lo diceva sempre. Era un’espressione vecchia quanto l’invenzione della vela, e i marinai la usavano proprio da quei giorni, quando imprecavano contro la divinità pagana di Sedune, dio del mare. I più blasfemi s’immaginavano che Sedune bevesse birra fino a scoppiare e che, ubriaco, andasse a urinare in mare tonnellate di acqua, tanto da smuovere gli oceani e creare le tempeste.

Ma quello che importava a Caleb è che gli facesse schifo usare un’espressione di Avidan. “Il frutto non cade mai troppo lontano dall’albero”, gli ripeteva suo nonno, quando voleva farlo incazzare. Caleb andava a confidarsi con lui, dicendo che odiava suo padre, e il nonno non faceva che ricordargli quando lui assomigliasse ad Avidan.

«E’ ora» ripeté Yusul col suo accento khalimico.

Caleb avrebbe voluto alterare il tempo, come i maghi delle favole che ascoltava da bambino. Si sentiva come quel tizio che aveva venduto l’anima al demonio in cambio della conoscenza e stava per morire. “E’ la fine di tutto, allora”.

«Tu pronto?» ripeté Yusul, porgendogli le manette.

«No.»

L’uccello si ammosciò alla velocità del vento. “Tanto vale farla finità”, pensò. “Porco cane, se me l’avessero detto un anno fa, che sarei finito così…

Scappare per farsi ammazzare? Meglio vivere un altro giorno. Non fece resistenza e si fece incatenare. Si alzò e seguì l’eunuco.

Percorsero i corridoi di marmo: in quelle sale vi era ancora tutta la traccia del Regno Imperiale, A Caleb sembrò di vedere ancora gli strateghi, le ancelle, i sacerdoti dell’Ecclesia d’Oriente che passavano coi loro turiboli. Tutti i dignitari erano scappati quando l’assedio stava mettendosi male oppure erano stati uccisi dai khalimici. Caleb era un occidentale, ma ammirava i vincitori che ora vivevano nel Palazzo Imperiale, in attesa che il Sultano ne costruisse uno nuovo, tutto suo.

Ma per lui era facile: sua madre era proprio di Khalim. Era la figlia di un Bey. Avidan l’aveva catturata durante un abbordaggio, quando faceva il corsaro per la Repubblica di Lenvar, e l’aveva portata a casa, dove l’aveva fatta riconvertire alla fede matriana. Per sposarla, in principio; ma non lo fece mai. Avidan detestava l’adulterio: “che ti sposi a fare se poi vuoi scoparti tutte quelle che ti passano davanti? Io non ho sposato tua madre, quindi non l’ho mai tradita.

Caleb non voleva sentire quando il padre gli raccontava della prima notte con sua madre. Eppure, aveva l’impressione che Avidan l’avesse amata veramente. Forse per una settimana, forse per un mese ma… Cazzo! Faceva proprio schifo pensare di non essere figlio di un atto di amore. Non voleva pensare di essere uscito dall’utero di una baldracca da taverna come Fidan. Non che ci fosse qualcosa di male: nessuno sceglie la propria madre, ma… Aveva bisogno di pensare di essere stato voluto, desiderato. E di certo lo era stato da sua madre.

La porta in fondo al corridoio si aprì e, dentro la stanza, il sacerdote stringeva già il coltello in mano.

Spinsero Caleb dentro. Un fremito di ghiaccio gli percorse la schiena.

«Spogliati» gli dissero.

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Cap.3 – Per non disturbare la fortuna.

Giorno 48
Da qualche parte nel Mare del Sud

«Piscio di Sedune, dov’è la Spezzaremi?! Che aspetta Sigurd?!» gridò Caleb.

«Manovra senza vela, che deve fare?» rispose Degro.

«Laggiù non serve a niente: non colpirà nessuno con le baliste! Tra poco quei bastardi ci saranno addosso e siamo meno di loro!»

Dietro di loro, le galee dei khalimici ormai guadagnavano terreno sulla Matrona e la Puledra. A dritta, nuvole nere scintillavano alla luce dei fulmini mentre il vento ormai soffiava forte; a sinistra, la Spezzaremi tentava disperatamente di riprendere la rotta, ma ormai era troppo distante. A Ovest, il tramonto avanzava. C’era sempre meno luce e poca scelta: virare verso la tempesta, affrontare cinque galee da preda khalimiche armate fino ai denti o infine andare a tutta forza verso la notte, nella speranza di non essere raggiunti. E poi l’opzione peggiore: abbandonare una delle loro navi come sacrificio e tentare la fuga con le altre due.

«Vado da mio padre!» urlò Caleb sgomitando tra i marinai per correre al cassero di poppa.

Percorse la passerella centrale della galea, barcollando al rollio dello scafo. I vogatori, incatenati, erano bagnati fradici: i loro visi erano contratti dallo sforzo immane che tentavano di imprimere sui remi. Era impossibile tenere le vele al vento: potevano essere strappate via e in più la brezza soffiava contraria alla via di fuga. Un’ondata si infranse sul fianco: gli spruzzi si levarono altissimi, sovrastando la nave. Caleb si riparò col mantello, poi riprese ad avanzare finché arrivò a poppa.

Avidan Sigà aveva appena piazzato un calcio nel ventre del timoniere: stava in piedi con il pugnale estratto, ed era attorniato dal quartiermastro e da altri marinai.

«Vi ho detto che non ci ritireremo!» urlò il capitano. «Se la Spezzaremi torna in asse con noi, possiamo abbordare…»

«Ma ti ha dato di volta il cervello, Avidan?!» lo interruppe il quartiermastro. «Sono cinque navi, piene di giannizzeri! Lasciamo indietro la Spezzaremi!  Un paio delle loro, forse tre, si fermeranno ad abbordarla e noi potremo andarcene!»

«No! Non lascerò indietro i miei uomini!» rispose Avidan.

Fottuto ipocrita” pensò Caleb. “Non vuole perdere un terzo del carico: non gliene frega un cazzo degli uomini.

«Se non lasciamo la Spezzaremi indietro come esca, siamo morti! Io non mi farò catturare da quelle bestie!» disse il primo ufficiale. «Forza, levatevi dal timone!»

Il povero scemo tentò di avvicinarsi. Avidan gli aprì l’avambraccio dal gomito al polso e l’uomo cadde al suolo urlando di dolore.

«Fallo cucire dal barbitonsore, se ha smesso di vomitare sottocoperta!» disse Avidan al quartiermastro, pulendo il sangue dal coltello. «Poi dì ai vogatori di dritta di remare con tutta la forza e ferma quelli a sinistra! Facciamo una virata sul posto e andiamo verso la Spezzaremi!» disse Avidan.

Il padre gettò un’occhiata a Caleb, che sapeva bene cosa voleva dire quello sguardo. E Caleb decise di non fare nulla, osservandolo incarognirsi ancora di più.

Vorresti che sguainassi la spada e ti sostenessi, vero? Non ti aiuterò, vecchio pazzo”, pensò. “sei da solo. Hanno ragione i marinai: la Spezzaremi verrà raggiunta comunque e se non la lasciamo indietro, siamo fottuti anche noi”.

Si avvicinò il nostromo: «Capitano» disse Degro, con calma. «Possiamo decidere di salvarci almeno in parte o morire tutti. Non c’è verso di battere cinque galee. Andiamo verso la tempesta o verso il tramonto, dove riterrete voi: ma incontro alla salvezza e non a morte certa. Riflettete: gli uomini non vi ubbidiranno e la differenza è che saranno loro stessi a buttarvi ai pesci e non i giannizzeri.»

Avidan lo guardò e tutti stettero immobili per un secondo, scommettendo dentro le loro menti se il capitano avrebbe sbudellato il nostromo o meno.

Il capitano rinfoderò il pugnale. Degro sapeva sempre come farlo ragionare. “Dovrebbe essere lui suo figlio”, pensò Caleb con rabbia. Perché un semplice nostromo aveva così tanto potere su suo padre e lui no? Esperienza, forse. O fiducia maturata in anni di comando.

Il capitano fece un cenno al quartiermastro: «Vela maestra» disse.

«Vela maestra! Voga arrancata, tutti i banchi insieme, finché non è issata» urlò quest’ultimo. «Che rotta, Avidan?» chiese poi. «Tramonto o tempesta?»

Avidan si voltò: il suo viso era una maschera di ghiaccio.

«C’è da chiederlo?» rispose.

La Spezzaremi non si vedeva più: ormai la pioggia impediva di avvistare qualsiasi cosa che fosse oltre i duecento metri. Il mare ruggiva e si infrangeva con spruzzi altissimi sulla prua. Era una pazzia condurre una galea in mare aperto: quel tipo di navi era fatto per la navigazione sotto costa, ma non aveva altra scelta se voleva scappare dalle pattuglie khalimiche.

«Degro!» gridò Caleb, aggrappandosi alla balaustra.

«Ehi principino!» gli disse il nostromo, avvicinandosi. Quella era il nomignolo con cui il nostromo lo sfotteva scherzosamente.

«Papà lo sa che questo tratto di mare è il regno dei pirati di Garut Bey?»

«C’è qualcosa che tuo padre non sa, a questo mondo?» disse il nostromo.

«Proteggere i suoi uomini» fu la sua risposta.

Garut: quel nome faceva gelare il sangue di qualsiasi capitano lenvare. Garut Bey era un corsaro al servizio del Sultano di Khalim. Forse le galee che avevano alle spalle erano proprio le sue: Garut odiava i lenvari, perché era stato loro prigioniero per anni, quando faceva il pirata: poi, un ammiraglio di Khalim lo riscattò per nominarlo suo vice, e da lì, Garut divenne un corsaro, ancora più potente di prima. Ragione in più per fuggire il più lontano possibile dai suoi domini.

Il rumore dei tuoni era spaventoso e il mare sembrava un lenzuolo grigio continuamente sbattuto di qua e di là. I mantelli, ormai zuppi e pesanti, rendevano i movimenti ancora più faticosi, se non fosse bastato il beccheggio incessante a cui era sottoposta la nave.

«Vedetta!» urlò Avidan.

«Niente a poppa, capitano!» urlò il giovane Gan. Era il marinaio più giovane a bordo: piccolo e agile. Veniva sempre scelto lui per arrampicarsi sugli alberi e sbrogliare le vele, o aggrapparsi alla chiglia.

«Forse ce l’abbiamo fatta» disse Degro.

«Non ci fermiamo. Andiamo avanti!» disse Avidan.

«Non sappiamo verso cosa stiamo andando! Dobbiamo fermarci, la vela non tiene più: tra poco sarà strappata via! Aspettiamo che passi il fortunale.»

«Le onde sono troppo alte: mezza sentina è già piena d’acqua. E poi ce li abbiamo alle spalle, lo sento! Dobbiamo toglierci di qui: non ci fermiamo prima di un’ora!» ribadì Avidan.

«Ascoltami» disse Degro avvicinandosi. «Loro hanno molto più da perdere di noi, guardiamoci in faccia: noi siamo disperati che tentano il tutto per tutto; loro hanno armi e soldati addestrati. Non rischieranno di affondare per inseguire tre misere galee cariche di allume.»

Avidan guardò il nostromo. Gli sorrise e disse:

«Non trasportiamo allume.»

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Cap. 4 – In mezzo al mare, c’è un pesce tondo, che quando se la vede brutta, va sul fondo.

Giorno 13
Al largo della costa lenvare

Gli occhi di Caleb, gradualmente, si abituarono alla penombra, sottocoperta. Lo sciabordio dell’acqua contro lo scafo era attenuato: i rematori erano stati fermati. Presto qualcuno sarebbe venuto sottocoperta per il cambio turno: doveva sbrigarsi. Avanzò cercando di fare meno rumore possibile: nelle amache attaccate alle pareti, stavano sonnecchiando alcuni marinai e soldati. Quando tolse il chiavistello dalla porta di una delle stive, la porta cigolò. Si voltò: nessuno aveva udito. Scivolò dentro e richiuse con delicatezza la porta. Girò gli scuri della piccola lanterna che si era portato dietro e davanti a sé vide numerose casse, saldamente inchiodate. Forzarne una senza fare un chiasso tremendo era impossibile; c’erano dei barili però, decisamente più facili da aprire: erano soltanto legati con una corda. Tirò fuori il pugnale e la tagliò: tolse il coperchio e mise la mano dentro. Non tastò niente di granuloso: non c’era allume lì dentro. Invece, sentì qualcosa che lo punse. Tirò indietro di scatto la mano: sangue. Che diavolo stava trasportando il padre? Puntò la lanterna: dentro c’erano centinaia di frecce legate assieme e a bordo non c’erano così tanti arcieri da giustificarle. Doveva capire cosa trasportassero le altre casse e ne individuò una piccola. I chiodi con cui era chiusa erano piuttosto sottili, per cui mise il pugnale dentro una fessura e iniziò a far leva.

La porta della stiva si aprì con uno schianto.

Caleb si girò ma fu disarmato con un calcio poi un pugno lo scaraventò indietro. Si aggrappò al barile che però si rovesciò; le frecce si sparsero sul pavimento. “Adesso o mai più”, pensò. Scattò su e colpì alla cieca: sferrò un calcio al suo aggressore e lo sentì lamentarsi. Nella penombra gli sembrò di vederlo chinarsi: Caleb si lanciò in avanti e lo agguantò. I due rotolarono, tirandosi i capelli e colpendosi come forsennati, finché l’assalitore non disse:

«Piantala, idiota, o prima ti castro e poi ti faccio buttare fuori bordo!»

La lanterna illuminò il viso di Avidan, col labbro spaccato. Il capitano si alzò, stremato, e chiuse la porta alle spalle.

«Contengono spade, lance, dardi, frecce e cotte di maglia, contento?» disse Avidan indicando le casse. «Perché non mi hai chiesto, invece di infilarti qui come un ratto di fogna?»

«Avevi detto che era allume! Ti sei messo a contrabbandare armi?» disse Caleb sedendosi sul barile rovesciato, ansimando.

«Non contrabbandiamo un cazzo: portiamo aiuti militari, regolarmente registrati.»

«Dove?»

«Andiamo verso Ajura, dove il Re di Selesia sta assediando il forte. Gli portiamo armi e uomini da parte della Repubblica, sua alleata. E lo aiuteremo nel blocco navale: ci aspettano un centinaio di fanti di marina là. E’ meglio che l’equipaggio non lo sappia: tanto hanno firmato e devono eseguire i miei ordini qualsiasi essi siano. Se sapessero che andiamo in guerra, si ammutinerebbero alla prima occasione. Li ho pagati metà del salario normale e non ho potuto reclutare una ciurma scelta: per quel prezzo abbiamo preso degli avanzi di prigione, non te ne sei accorto guardandoli?»

«Sei un vecchio bastardo! Ora ho capito che cazzo volevi dire con quella frase sugli assentisti che si arricchiscono!» gridò il figlio.

«E tu sei un coglione, incapace di vedere al di là del suo naso; anzi qualcosa di più piccolo ancora: diciamo il tuo uccello!»

Assentista era un termine “elegante” per definire un capitano di nave al soldo di una potenza straniera: un mercenario sull’acqua, né più né meno. Avidan lo aveva già fatto, in passato: si era arricchito, ma a caro prezzo. Uno dei fratellastri di Caleb era morto per seguirlo, senza contare i compagni mutilati o uccisi.

Avidan sputò un grumo di sangue, pulendosi il labbro con un fazzoletto. Poi riprese:

«Questa è l’unica speranza che abbiamo per risollevarci: pensavi che ci avremmo guadagnato qualcosa di sostanzioso con un carico di allume, invece di andare a combattere?! Tra quattro giorni arriveremo. Poi conquisteremo il porto di Ajura: prevedo che ci riusciremo in circa cinque giorni, sette al massimo. Tra meno di due settimane, avremo migliaia di maravedi in tasca» rispose Avidan.

Ce l’ha messo nel culo a tutti quanti”, pensò Caleb. «Se andiamo verso Ajura, ci fermeremo a rifornirci d’acqua lungo la costa malica, immagino» disse. «Mi farai scendere lì e poi potrai andartene affanculo: tu e i tuoi mercenari!»

Avidan fece due passi in avanti, con uno sguardo che definire demoniaco sarebbe stato riduttivo: Caleb mise istintivamente il braccio davanti al viso, per difendersi.

«Ora stammi a sentire bene, brutto stronzo ingrato: secondo te perché ti ho fatto venire con noi? Perché sai combattere!» disse Avidan serrando i pugni.

L’ira lo faceva ribollire, la mandibola era serrata e si muoveva quel tanto che bastava a fargli scandire le lettere. «Ora tu farai quello che ti dico io! Noi andremo ad Ajura a conquistare quel piscio di Sedune di fortezza, ci prendiamo la ricompensa e torniamo a casa ricchi. Non è una richiesta la mia! Se rifiuti io ti giuro, come è vero che ho ingravidato tua madre per generarti, che ti ficco un coltello in bocca finché non esce dall’altra parte. Sono stato poco chiaro!?»

Caleb si sentì un idiota due volte: la prima, perché aveva alzato il braccio e aveva dimostrato al padre che lo temeva. La seconda, perché per un istante gli aveva creduto, laggiù al molo, quando erano partiti.

Trovò che la cosa migliore fosse quella di non dire nulla e andarsene. “Il silenzio è la miglior risposta”, gli diceva sempre il suo fratellastro morto. “Così potrai sempre decidere all’ultimo che fare.

Tornò sul ponte. Gan stava intagliando qualcosa. Quando vide Caleb, saltò su e gli corse incontro con in mano la sua opera.

«Guarda, Caleb: sembra un cavalluccio marino, vero?»

Il giovane Sigà lo ignorò e si sedette sulla balaustra a prua: davanti, la grande tavola blu screziata di bianco, traditrice e portatrice di vita allo stesso tempo.

«Perché fai il marinaio, Gan?» chiese, senza neanche guardarlo.

«Nonno era marinaio… papà pure… mio fratello è marinaio e il marito di mia sorella è marinaio anche lui.»

«Perché non hai fatto il falegname? Ci sai fare.»

Gan fece un enorme sorriso: Caleb aveva notato il suo intaglio!

«Non ho i soldi per aprire una bottega. E non mi va di stare anni sotto un maestro. Invece tu? Perché fai il… beh…»

Caleb rise. «Bravo: neanche io so che cosa sto facendo. Odio parlare, odio uccidere. Odio corteggiare le donne per più di cinque minuti. Odio non fare nulla, odio quasi tutti i miei fratelli e odio mio padre. Che mestiere dovrei fare, secondo te?»

«Perché non fai l’attore ed entri in una di quelle compagnie itineranti?»

Caleb lo guardò stupito: non era di certo un complimento. Quegli attori erano dei perdigiorno, vagabondi e blasfemi: era come suggerire ad una ragazza di fare la meretrice. Eppure, Caleb adorava la loro volgarità ed era un avido spettatore di commedie. Gan non poteva saperlo, però: così fece finta di essere offeso dalle sue parole.

«Che ti salta in testa? Io un attore?»

«Non arrabbiarti! Hai detto tu che odi tutto, no? Come attore parleresti tanto, certo, ma per finta. E uccideresti per finta, sul palco. Saresti sempre una persona diversa che fa cose diverse e poi, per quanto riguarda le donne… hai mai visto un attore innamorato per la stessa donna più di cinque minuti?»

«No, in effetti» rispose Caleb sorridendo. «Forse dovrei ascoltarti.»

«Nah, scherzo. Gli attori muoiono di fame e tu hai un cognome destinato a far grandi cose.»

«Anche tu hai…»

«Shh! Non dire nulla, ti prego.» lo interruppe Gan. «Io non sono fatto per vivere nei palazzi a leccare il culo agli altri nobili. Preferisco stare qui. Andiamo ora: c’è da svolgere le vele. Rotta a Sud, verso la costa malica.»

Caleb salì sul cassero di prua, ad osservare il Mare del Sud. Il vento si stava alzando.

Si assopì, appoggiato a una balista. E nel dormiveglia, ricordò del giorno della sua partenza, quando la salutò.

Dakhia-Ela-Thaian era una donna sui quarant’anni, dalla pelle bronzea, gli occhi neri come il corvo. Aveva un bel viso rotondo, tipicamente khalimico, ma privo dei segni degli stenti del lavoro e del tempo, come una vera nobildonna. Caleb non aveva mai compreso perché sua madre si fosse innamorata di quel porco schifoso di suo padre.

«Perché lui non ti ha sposata?» chiese Caleb alla madre.

«Perché io detto che amavo lui. Lui quindi no sposa me» era stata la risposta. Pesante come un’ascia werdanna sul collo. “Nessuno mi ama”, diceva sempre il padre: a quanto pare, si sbagliava.

«Lui no vuole sposare una che ama lui» riprese lei. «Avidan no capace di essere fedele. Così io diventata sua concubina. Io poteva avere altro uomo, lui mai vietato me. Io deciso di no: è stata scelta mia. Sigurd era già nato di un anno e mezzo: lui aveva avuto da donna di nord, ma lei morta. Io già fa da mamma a lui, ma io voleva figlio nostro. Un giorno che era primavera, io va da Avidan e dice: “aspetto un figlio. Tuo figlio.” Io sapeva che era maschio: eri tu. Pensavo che lui manda me via da casa: lui sempre detto di stare attenta, prendere medicina che sacerdotesse di Milena fa in segreto, per non avere figli. Invece mi abbraccia e dice “stai tranquilla, qui c’è suo padre”. Io ricorda, come fosse ieri.»

Dakhia andò alla finestra guardando il cielo, con malinconia.

«Quando tu piccolo, lui parte perché repubblica di Lenvar chiama per guerra contro Tila. Torna dopo quasi uno anno: prima solo scrive me che va bene, che Repubblica sta vincendo. Torna e dice: “ti ho portato un regalo bellissimo”. E mi mette in braccio Fidan. Suo regalo era tuo fratello, figlio di altra donna. Io lo guardo e sento girare la testa: penso che lui tradito me. Lui dice: “non sei felice? Caleb avrà fratello. Avremo almeno dieci figli e non possiamo aspettare di farne uno all’anno. Voglio famiglia numerosa: tra quindici anni, avrò tanti figli da comandare intera flotta! E tu sarai madre di dieci, venti figli, senza dover soffrire come quando è nato Caleb.”»

«Hai sofferto quando sono nato io?» chiese il figlio.

«Sì, sei stato un demonio! No volevi proprio uscire fuori!» disse ridendo Dakhia.

«Io quasi morta dopo che nato tu. Perso tanto sangue e chierico che visita me dopo partorito, dice che meglio io non fa più figli: che prossimo figlio io muore. Padre tuo molto felice di vedere te, vivo» disse Dakhia.

Fece per dare una carezza a Caleb ma egli scostò il viso. Odiava le smancerie, ma lei continuava a provarci: voleva accarezzare il suo bambino come quando era piccolo.

Un urlò lo destò.

«Navi! Galee lunghe, quattro leghe ad est!»

«Quante?» gridò il nostromo.

«Almeno quattro, forse cinque! A vele spiegate!»

Degro guardò Caleb, preoccupato.

«Che bandiera batteranno, secondo te?» chiese Caleb.

Il nostromo esitò a rispondere.

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Cap. 5 – E al posto degli anni, che erano diciannove, si sono presi le gambe e le mie braccia nuove.

Giorno 48
Da qualche parte nel Mare del Sud

«Alle armi! Alle armi! Date le lance ai buonavoglia!» urlò il quartiermastro.

Era una situazione disperata, dunque: armare i buonavoglia era l’ultima spiaggia. Quei vogatori così disperati da accettare un magro salario per stare al remo non avrebbero mai retto contro i giannizzeri.

«Siamo di traverso!» gridò Caleb. « Dobbiamo virare e…»

L’ondata gli riempì le orecchie e la bocca. Si aggrappò a qualcosa ma non riuscì a tenere l’equilibrio. Quando l’acqua si ritirò, fradicio, si alzò e si accorse che il quartiermastro non c’era più: l’onda lo aveva spazzato fuori bordo. Corse al parapetto tentando di scorgerlo nell’acqua scura, invano. Il mare era agitato come un animale davanti al fuoco: sembrava che la nave galleggiasse in una pentola di acqua nera che ribolliva e schiumava. Soltanto un equipaggio di pazzi giannizzeri a caccia di bottino poteva averli seguiti in mezzo a quella tempesta.

La Spezzaremi emanava sinistri bagliori rossastri in lontananza, mentre la sua vela maestra bruciava nonostante la pioggia. Le urla degli uomini non si sentivano più, coperte dal suono dei tuoni incalzanti.

Caleb guardò la propria nave, a prua: era stata appena abbordata. “Speriamo che almeno ammazzino quello stronzo di Fidan”, pensò. Si pentì immediatamente di quello che aveva immaginato: stava desiderando la morte di suo fratello. “E poi ammazzeranno anche me. Speriamo di essere separati almeno all’inferno.”

Neanche il tempo di raggiungere il centro della nave che un rampino d’abbordaggio lo sfiorò, scintillando a un centimetro dalla sua guancia: si piantò saldo nel legno e si tese come la corda di un arco. E dopo quello un altro e un altro ancora: decine di furono lanciati dai khalimi. La Matrona era stata accostata da una seconda galea: i giannizzeri urlavano e scagliavano frecce addosso ai lenvari, che rispondevano al fuoco con le loro letali balestre.

Caleb tastò l’elsa della spada e pensò: “Due abbordaggi. Ce l’abbiamo nel…

Fu un urto fortissimo: le due navi si erano infine accollate. Caleb cadde addosso ai rematori: neanche l’acquazzone aveva tolto l’odore di sudore, merda, piscio, vomito, piaghe e ascessi che emanavano quei poveri diavoli. Qualcuno lo spinse indietro e si rimise in piedi: lo attirò il clangore del metallo che proveniva da prua, dove si stavano consumando gli scontri più violenti.

Era dolorante, bagnato fino all’osso: ma non gliene fregava più niente. Si considerava morto ormai e il suo unico pensiero era portare all’inferno con lui più gente possibile. Guardò verso poppa: Avidan non c’era più. I giannizzeri, con le loro vesti verdi e le armature leggere e dorate, si erano aperti un varco nel sangue, senza fatica: già correvano verso il centro della galera, per raggiungere la stiva. Gli ultimi lenvari ancora in grado di combattere erano asserragliati a poppa: i balestrieri falciavano con precisione i giannizzeri privi di scudo, ma erano troppo pochi. Caleb era stato tagliato fuori e stava nel mezzo della Matrona, chiuso tra due schermaglie.

“Dove cazzo è mio padre?!” Pensò. Non era di certo lo slancio amorevole di un figlio ad animarlo: in quel momento, stare vicino al capitano era la sua unica occasione per venire catturato e non trucidato. I khalimi non erano sciocchi: Avidan era un nobile e la sua famiglia piuttosto nota. Con un po’ di fortuna e il pagamento di un riscatto, entro qualche mese sarebbero stati rilasciati.

Devo solo arrivare vivo a poppa”.

Spada sguainata, Caleb avanzo sulle assi fradice. Infine, due khalimi lo notarono. Non erano giannizzeri, ma semplici fanti di marina: lo capì dalla povertà delle loro armature. Urlarono e corsero contro Caleb.

Idiota” pensò il lenvare. Teneva la spada troppo alta, senza un minimo di guardia: era un cretino che non aveva mai combattuto. Caleb lo trafisse al cuore senza neanche parare il suo colpo. Il secondo però ebbe un’idea migliore: spinse addosso a Caleb il suo compare trafitto, impedendo al giovane di estrarre la spada dal corpo. Caleb non riuscì a tenere il corpo che si afflosciava e la sua spada finì sotto il cadavere. Allora il suo aggressore tentò di colpirlo alla testa: Caleb fece un salto indietro, mettendo un po’ di distanza tra lui e la spada del khalimico.

Pensa, idiota, pensa!” ripeté a sé stesso. Estrasse il pugnale. Il khalimico scavalcò il corpo del suo conterraneo e fu quello il momento in cui Caleb ne approfittò. Col pugnale lo colpì alla gamba e lo fece sbilanciare. Ma la spada del nemico si abbatté comunque su di lui e gli squarciò la spalla. Caleb finì in ginocchio ma non cedette: balzò addosso al khalimico e lo trafisse all’addome. Poi lo colpì al viso e gli strappò la spada di mano, ma… cadde sui rematori: questa volta era stato strattonato. La pelle di quel forzato se la ricordò perché ci affondò letteralmente dentro: era nera come la notte. La sua catena si avvolse attorno al collo di Caleb e strinse, strinse con tutta la forza e l’odio che un prigioniero poteva esprimere al suo padrone, ora che aveva la possibilità di strangolarlo senza pietà. Gli altri forzati iniziarono a prendere a calci il lenvare, in un tintinnio di catene.

Il giovane abbrancò nuovamente il coltello e menò stoccate alla cieca, finché non sentì mollare la presa. Si alzò, barcollando e non guardò nemmeno il forzato.

Il khalimico che lo aveva assalito era carponi e sanguinava come un maiale ferito. Caleb lo fini piantandogli la lama nella nuca. Poi rovesciò il cadavere del primo aggressore e recuperò la sua spada. Cercò di stare lontano dai vogatori ancora incatenati: molti lo imploravano di liberarli mentre andava verso la poppa. “Col cazzo, non ho tempo per voi: mi spiace ragazzi ma se vi siete fatti catturare come degli idioti, forse ve lo merit…

Ma che stava dicendo? Sarebbe stato catturato anche lui di lì a pochissimo: che diritto aveva di giudicare quei poveri diavoli? Magari avevano lottato, magari erano solo usciti dalla fica sbagliata. Non c’era tempo per la filosofia, però. “D’accordo, Caleb, ora concentrati: tra te e il cassero di poppa c’è una battaglia. Come puoi passare là in mezzo?

Non dovette neanche escogitare un piano, perché un giannizzero pensò a tutto per lui, mentre lo colpiva alla nuca. Concentrato su quello che succedeva a poppa, Caleb non si era accorto che a prua la resistenza era crollata e i khalimi avevano ormai invaso la nave.

Il sangue gli colava sugli occhi e gli impiastricciava il volto e i capelli. Cercò a tentoni la spada ma non la trovò. Attorno a lui, tutto era offuscato, come in sogno. Gli ronzavano le orecchie, ma poteva udire nettamente il clangore del metallo, le urla, annusare l’odore del legno bruciato. Bocconi, con il viso schiacciato sul ponte, si voltò: qualcuno lo prese per le ascelle, lo strattonò e lo tirò su in piedi.

Ora mi fa secco”, pensò Caleb. Ma quando la vista smise di essere foschia, vide Degro.

«E’ perduta! La nave è perduta!» gli urlò il nostromo in faccia, sputacchiando mentre lo diceva. «Buttati a mare o…»

Caleb lo vide sgranare gli occhi e lasciare di colpo la presa. Un fiotto di sangue sprizzò dalla gola di Degro. La lama si abbatté sul suo collo altre quattro volte finché la testa non fu staccata, Dietro, un giannizzero sfoggiava lunghi baffi neri, mentre la celata gli copriva gli occhi lasciando intravedere solo un bagliore: Caleb ebbe la sensazione che lì dentro ci fosse il demonio in persona. Il corpo senza testa di Degro franò a terra come un sacco di patate.

Il giannizzero afferrò il polso di Caleb e guardo gli anelli e il braccialetto che portava.

Caleb gli sferrò un pugno, fregandosene dell’elmo e ferendosi la mano.

Il pomo dell’elsa gli si schiantò sulla tempia. La testa gli girò per un istante, poi i suoni divennero un’eco lontano e la pace, finalmente la pace, si impossessò di lui.

Sto morendo” pensò Caleb. “Allora non è poi così male”.

E poi quel sorriso: lo vide prima di chiudere gli occhi. Il giannizzero se n’era andato e ora c’era una specie di principe khalimico col turbante sopra di lui, che gli puntava la spada contro. Era formidabile, splendido come quegli eroi delle fiabe e sorrideva con tutti i denti. Era un capitano, come suo padre.

E quel giorno aveva vinto.

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Cap. 6 – La sfortuna è come un avvoltoio, che gira intorno alla testa dell’imbecille.

Giorno 75
L’ex palazzo Imperiale della Città di Dreniane

Caleb se ne stava in riga con gli altri prigionieri. Quel viaggio fino alla città di Dreniane era stato più che faticoso: era stato messo al remo, come gli altri lenvari, per giorni e notti. Alcuni dei vogatori erano morti durante la traversata e non dimenticò mai la puzza di piscio, merda, vomito e piaghe che impregnava i banchi di legno dei rematori.

Non era però toccato a suo padre: al capitano spettava lo status di “nobile” e i privilegi del caso. Avidan si era fatto tutta la navigazione ospite di Akhad Bey, il signore khalimico che li aveva catturati.

Dreniane era una delle tante città che il sovrano di Akhad Bey aveva conquistato. Il Sultano di Khalim non si sarebbe mai fermato: avrebbe conquistato tutto quello che un tempo apparteneva al Regno Imperiale di Essava e la sua dinastia ci stava lentamente riuscendo, decennio dopo decennio, sfruttando la decadenza della corte del Re Imperiale. La stessa Dreniane una volta, era una delle città più importanti dell’Impero Sabano, culla di cultura e sapere; il Sultano si era installato nell’ex Palazzo Imperiale, proprio per ribadire il suo scopo, e lo aveva fatto decorare secondo il costume khalimico. I mosaici e gli affreschi erano stati coperti da sfavillanti arabeschi e stucchi colorati, o anche da semplice intonaco bianco. Era così che a quel tempo una cultura si imponeva sull’altra: tentando di cancellarne le sue tracce, o meglio, di nasconderle sotto strati di vernice, stucco e malta.

Al centro della sala delle udienze del palazzo, sostava Akhad Bey. Caleb aveva imparato a conoscerlo meglio durante il viaggio. Il Bey gli aveva salvato la vita quando il giannizzero stava per strappargli i gioielli e buttarlo a mare, durante l’abbordaggio. “Idiota ottuso e irrispettoso”, aveva urlato il Bey al suo soldato, prima di fargli infliggere 50 frustate e un mese a mezza razione, per aver tentato di ferire un nobile che andava riscattato, vivo e il più integro possibile: merce pregiata che non andava rovinata troppo, perché non perdesse valore.

Ci siamo: è il momento”, pensò Caleb. Era teso e curioso: quanto valeva la sua vita? Quanto valeva un re? Un contadino? Un mercenario, anzi… un “assentista” come lui?

Avidan se ne stava calmo, in piedi. Nessuno avrebbe mai indovinato che cosa stesse pensando.

«Quanto denaro tu offre?» chiese Akhad Bey ad Avidan, in lingua sabana, carica del forte accento khalimico.

«Trentacinquemila per me e dodicimila per mio figlio Fidan, il capitano della galea Puledra» rispose Avidan; ma lo disse nella lingua malica parlata dai khalimi. Oltre che a scopare, il padre di Caleb era parecchio bravo con le lingue: quest’ultima abilità, del resto, gli favoriva la prima. Anche il figlio conosceva quella lingua, come ogni bravo navigante, ma soprattutto per via della madre.

Che stronzo. Non ha abbastanza soldi per riscattare tutti. Mi toccherà aspettare anni che raccolga i soldi anche per me” pensò Caleb.

Akhad Bey fissò un dignitario anzianotto che dettava ad uno scrivano sdentato e magro come un chiodo: i turbanti che indossavano li facevano sembrare buffi personaggi delle fiabe d’oriente. Il Bey fece un cenno impercettibile con la testa e poi si voltò di nuovo verso Avidan.

«Tu hai un altro figlio che combatte bene» disse indicando Caleb. «Cosa offri per lui?»

«Cinquemila» disse Avidan. «Lo sopravvalutate, Eccellenza: è giovane non vale molto.»

Piombò il silenzio nella sala: i khalimi rimasero sbigottiti. Caleb credeva di non aver udito bene. “Solo cinquemila. Vuole tirare giù il prezzo. E magari pure farmi cagare addosso”, pensò, sperandolo dentro di sé.

«Tu hai deciso che vale dodicimila tuo figlio codardo che ha abbandonato la nave durante la battaglia e cinquemila quello che combatte bene?!» chiese Akhad Bey con fare scandalizzato. Sia che trattassero la vendita di un tappeto che quella di uno schiavo, i khalimici usavano grande teatralità: ampi gesti, timbro di voce alto, sguardo rivolto al resto della platea a cercare approvazione.

«Perdono se le mie parole non sono state chiare: tuttavia il vostro udito è ottimo, Eccellenza» rispose Avidan con un mezzo inchino.

Un altro sguardo del Bey al dignitario: questa volta l’anziano alzò le spalle e spalancò gli occhi.

«Io credo che le cifre per i tuoi figli andranno invertite, capitano Avidan» disse il Bey.

«Rispettosamente no, Eccellenza: quest’altro mio figlio non vale per me che cinquemila. In caso non vi soddisfi, fatene ciò che riterrete opportuno» disse Avidan.

Che cazzo ha in mente?!” pensò Caleb cercando di catturare lo sguardo del padre, senza risultato.

«Quarantasettemila per te e il tuo figlio codardo, capitano, è comunque troppo poco. Sua Luce il Sultano dice che tu deve pagare settantamila per te e tutti i tuoi tre figli» ribatté Akhad Bey.

Chissà come fa a parlare con “Sua Luce”, pensò Caleb. Il Sultano non era presente nella sala: era offensivo per un monarca partecipare a quelle trattative da usuraio, ma era sufficientemente nobile arraffare il riscatto, a cose fatte.

«Non ho quella somma» rispose fermamente Avidan. «Posso arrivare a cinquantacinquemila per me e Fidan, ma mi servono due mesi di tempo.»

Akhad Bey si accarezzò il curato pizzetto. «Cinquantacinquemila è un prezzo accettabile, ma avrai solo un mese per ottenerlo. Se vorrai due mesi, la cifra è settantamila. E ti riprenderai anche tuo altro figlio Caleb.»

«Non credo che sarà possibile, in così poco tempo» ribadì Avidan. «E ribadisco che non ho interesse per Caleb.»

Akhad Bey guardò il figlio abiurato. Anche Caleb lo fissò: non aveva più quel sorriso da principe del deserto di quando aveva catturato la loro nave. E quello che disse dopo quel momento di silenzio, convinse Caleb ancor di più che la nobiltà forse albergava nel suo titolo, ma non nel suo animo. Akhad Bey riadoperò il sabano: voleva essere ben compreso da tutti.

«Bene. Dato che voi infedeli non avete tempo o soldi per pagare riscatto, noi faremo di tuo figlio Caleb un eunuco: sarà reso schiavo al servizio di Sua Luce il Sultano. Sta bene, capitano Avidan Sigà?»

«Potete anche usare i suoi testicoli come sonaglino, per ciò che mi riguarda» rispose Avidan.

«Moderate i termini in presenza della corte!» disse fermo Akhad Bey. «Assisterete allora alla sua castrazione. Yusul!»

Un gigantesco eunuco dalla pelle nera prese per le spalle Caleb che, incredibilmente, non oppose resistenza: continuava a guardare incredulo suo padre. Avidan non lasciava trasparire emozione, al contrario di Fidan che ghignava soddisfatto.

«Dopo la castrazione di Caleb, se tu non accetterai di pagare il riscatto di cinquantacinquemila in un mese, metteremo a morte l’altro tuo figlio; e dopo anche te, Avidan Sigà. Sta bene?»

«Rracimolare la somma richiede il tempo di mandare messaggi in patria ai miei familiari e spedire qui il denaro necessario!» disse Avidan alzando la voce. Si rese conto che la forza era inutile, e cercò di rimediare: «rispettosamente, non credo che un nobiluomo come voi, abituato a questioni di maggiore importanza, sappia come funziona la nostra macchinosa burocrazia lenvare, Eccellenza! Fidatevi di me, che frequento ambienti ben più modesti dei vostri.»

«Fidarmi di un infedele che trasporta armi per i nemici di Sua Luce? L’eccellentissimo illuminato Sultano non ha tempo di aspettare i comodi degli infedeli» rispose Akhad Bey battendo le mani.

Altri eunuchi portarono due ceppi di legno e un’ascia, e li posizionarono al centro della sala. Poi fecero inginocchiare Avidan e Fidan.

Avevano già tutto bello e pronto dietro le quinte, per il loro spettacolino” pensò Caleb.

Akhad Bey parlò nuovamente: «prima ti faremo vedere come tuo figlio diventa un eunuco. Poi faremo tagliare la testa dell’altro tuo figlio e faremo uscire dal suo corpo tutto il sangue impuro di infedele.»

Fidan a questo punto aveva smesso di ghignare: si stava pisciando addosso.

I servi portarono acqua e riempirono una vasca di rame. Poi, con grande stupore dei lenvari, due di loro buttarono due secchiate di ghiaccio triturato, fatti arrivare da chissà quale angolo del mondo, dritti nella vasca. Spogliarono Caleb completamente e lo fecero stare in piedi nell’acqua gelata. Il ragazzo rabbrividì mentre osservava il padre.

«Ti consiglio di sederti giù nell’acqua fredda. Molto sangue esce quando si taglia: il freddo aiuta a fermarlo» disse Akhad Bey al giovane.

Caleb riservò al padre uno sguardo della stessa temperatura dell’acqua. Avidan non lo osservava.

«Dunque sei sicuro che non il hai denaro per pagare il riscatto?» disse Akhad Bey.

Il castratore si avvicinò con i suoi strumenti di metallo scuro, ben più impressionanti della già malsana idea di sterilizzare qualcuno.

Avidan ribadì il silenzio. Caleb fu legato mani e piedi. Il padre infine gli diede un’occhiata che Caleb non seppe interpretare e poi rimise guardò fisso davanti a sé.

Il castratore arroventò il coltello su una fiamma, lentamente, passando entrambe le facce della lama in maniera rituale. Attorno, gli eunuchi intonavano un canto lugubre che fece rizzare a Caleb tutti i peli del corpo. Era una nenia profonda, bassa, imponente e spaventosa, ma c’era della sacralità in essa.

«Tu combatti bene; sopporta il dolore con coraggio» disse Akhad Bey.

Il coltello si avvicinò. E ci fu un urlo.

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Cap. 7 – Mio bell’amore: la sfortuna è un uccello che gira intorno al culo più vicino.

 Giorno 97
L’ex palazzo Imperiale della Città di Dreniane

«Dove si va?» chiese Caleb.

«Tu scemo: tu ora impara» rispose l’eunuco.

«Yusul… se io sono scemo, allora tu sei il mio Sultano» disse Caleb con un inchino.

L’eunuco dalla pelle nera scattò avanti per agguantarlo, ma Caleb era più agile. Yusul lo inseguì per qualche minuto, poi si fermò ansimando, piegato in due. Si asciugò il sudore sulla fronte con un lembo della fascia che portava sotto la cinta, maledicendolo.

Caleb lo osservò: doveva avere quasi quarant’anni. Era nero, grasso e peloso come un cinghiale. Non parlava bene la lingua malica che si parlava a Khalim, quindi dovevano averlo catturato chissà in quale oscura foresta tropicale o deserto sconfinato.

«Scemo: tu viene con me o io fa frustare» ribadì Yusul.

Mentre camminavano nella penombra dei corridoi di pietra color ocra, Caleb pensava ancora alla grande sala dov’era stato immerso nella tinozza di acqua ghiacciata. Ancora non poteva credere che fosse successo. Non aveva più visto il padre né Fidan, da allora. Sperava fossero morti entrambi.

Infine, superarono un’ampia arcata e la luce del giorno lo accecò. Avanzò senza riuscire a vedere e improvvisamente sentì i granelli di sabbia infilarsi nei calzari. Appena gli occhi si abituarono alla luce, vide i gradoni di un antico anfiteatro sabano ormai mezzo in rovina: ciuffi di erbacce spuntavano dappertutto e le pietre erano sbeccate e sporche. Akhad Bey torreggiava in piedi sotto il sole cocente, su quello che una volta doveva essere il palco per le autorità. Era vestito con una tunica bianca che ricopriva in parte un’armatura lamellare dorata: portava il suo solito candido turbante e nonostante fosse vestito pesantemente, neanche una goccia di sudore gli bagnava la fronte, non traspariva nessun disturbo a stare sotto il sole.

«Che cazzo sta succedendo, Yusul?»

«Bey dice tu combatte bene e Sultano vedere se vero.»

«Oggi noi vede te come combatte» disse Akhad Bey, in un precario sabano.

«Dovreste andare entrambi a scuola di lingue» rispose Caleb in malico, indicando Yusul con un cenno del capo. Del Sultano nessuna traccia: ancora una volta il Bey parlava come se fosse lui in persona, investito della sua autorità.

«Tu ora riderai di meno» disse Akhad Bey. E fece un ampio gesto con la mano.

Dall’arcata di fronte, uscì un prigioniero scortato da due guardie: Caleb capì subito. Due spade khalimiche erano state piantate nel terreno in mezzo all’arena; l’unica cosa di colore diverso dal giallo della sabbia, che dipingevano di nero con le loro ombre curve.

«Fino all’ultimo sangue» gridò Akhad Bey.

Due spade nuovamente, come sul ponte della Matrona. Di nuovo un vincitore e un vinto: e non ci sarebbero state intrusioni, stavolta.

Yusul diede a Caleb uno spintone: lo stesso trattamento fu riservato al suo avversario. Mentre si avvicinava alle spade, Caleb vide i suoi tratti: pelle chiara, capelli castani. Era abbronzato: forse era un agricoltore o più probabilmente un marinaio.

I due si fermarono di fronte alle spade, guardandosi con gli occhi ridotti a fessure per la forte luce.

«Da dove vieni? Di dove sei?» gli disse l’altro. A sentire che parlava il volgare del Sud come lui, Caleb si morse il labbro: l’accento era lenvare. “Brutti stronzi: vogliono vedere se ho il fegato di far fuori un compaesano”, pensò Caleb.

«Lenvar» rispose Caleb.

«Combattete! O morirete entrambi!» urlò Akhad Bey.

«Io pure: sono di Sei Serte! Cosa possiamo fare per scappare?» gli disse il prigioniero, speranzoso.

O la mia o la tua: mi dispiace,” pensò Caleb. “Non sarò io a mordere la polvere, oggi” pensò.

Non rispose. Una tromba squillò: mentre il prigioniero lo guardava incredulo, Caleb balzò in avanti con una capriola e afferrò una lama. La conficcò con tanta violenza nel collo dell’avversario che egli non riuscì nemmeno ad emettere un lamento. Crollò al suolo, poi stette immobile: una fontana rossa e pulsante era nata dalla sua gola, affievolendosi sempre più.

Caleb guardò il Bey.

«Ora posso tornare indietro? Le ballerine stanno per danzare per il calare della sera» disse.

Caleb aveva bisogno di rivederla. Dopo quello che era successo nella grande sala, voleva rivedere la danzatrice vestita di verde, coi capelli chiari.

Akhad Bey sorrise e annuì.

Caleb quasi seminò Yusul, dalla fretta di tornare indietro. E mise in atto il suo piano.

«Visto che sono sopravvissuto, festeggiamo?» e tirò fuori una fiaschetta di cuoio. L’eunuco lo guardò sospettoso. Caleb tracannò un sorso: il liquore gli bruciò mentre scendeva in gola. L’eunuco gli strappò la fiaschetta e bevve avidamente. Caleb lo condusse nella sua stanza e ne tirò fuori un’altra da sotto il materasso. Yusul non poteva bere, secondo la fede dei Sei Profeti, tranne che in occasioni speciali, ma non disdegnava affatto di violare questa regola. Dopo mezz’ora, era così sbronzo da russare, sdraiato sulla brandina di Caleb.

Il giovane lenvare sgusciò via dalla sua stanza: di fatto non era un prigioniero ma non doveva mai andarsene a zonzo da solo e comunque non nella zona dove si esibivano le danzatrici.

Al solo pensare alla giovane vestita di verde, qualcosa si muoveva nei pantaloni. Glielo avrebbero staccato di netto se l’avesse toccata, come tagliavano i testicoli a coloro che…

Ripensò di nuovo a quello che era successo nella grande sala: ebbe un brivido così squassante che emise un sibilo a denti stretti, come stretti erano i suoi pugni al ricordo dell’acqua e della lama del castratore.

Si avvicinò alla finestra interna che dava sull’area dove danzavano le odalische. Le voleva parlare di nuovo: non si sarebbe accontentato di vederla.

E la fortuna fu dalla sua: non c’era che un vecchio eunuco a guardia della sala e non era voltato nella sua direzione. Le ragazze entrarono, coperte dai loro veli colorati. Ecco quello verde: Caleb fece uscire un braccio dalla finestra e attirò la sua attenzione.

Lei lo vide, lo vide di certo. Ma non fece nulla. Caleb riprovò: niente. La osservò parlare con le sue amiche, ridacchiando.

Tirò indietro il braccio; “brutta stronza” pensò tra sé.

Stava per andarsene quando la vide, sinuosa, avvicinarsi alla finestra strisciando rapida i piedi sul pavimento levigato: le altre ragazze andarono dall’eunuco e iniziarono ad attirare la sua attenzione prendendolo in giro, strusciandosi contro la sua virilità ormai assente.

La ragazza vestita di verde si avvicinò alla griglia: i suoi occhi nocciola fissarono quelli azzurri di Caleb.

«Ho ammazzato un uomo per poter essere qui in tempo» gli disse il ragazzo.

«Male per lui» rispose la giovane con noncuranza. «E male per te: perché io non ho nulla da dirti. Fatica sprecata.»

E fece per allontanarsi.

«Aspetta!» le disse Caleb, schiacciando la faccia contro la griglia, cercando di non fare troppo rumore. «Sei venuta qui: le tue amiche stanno distraendo la guardia. Glielo hai detto tu di farlo, non mi freghi… e non hai da dirmi nulla?»

«In effetti… da dire no» rispose lei.

Il suo viso si protese fino alla griglia. La sua piccola bocca passò attraverso le maglie fino a trovare quella di Caleb. I due ansimarono mentre la passione li prendeva. Poi il ragazzo si lanciò indietro e sentì in bocca il sapore del sangue.

«Che cazzo ti prende?!» le disse.

La ballerina si passò un dito sulle labbra, e lo osservò. «Tu sei uno che ama versare il sangue, Caleb Sigà. E non ti importa di niente. C’è chi non ha scelto di fare questa esistenza: tu invece sì. Tu sei come loro: se non c’è del sangue nella tua vita, non sei felice anche se ti fingi un uomo di pace. Perché hai paura di versarne un po’ del tuo? Ti avranno anche salvato le palle, ma si prenderanno comunque un pezzo di te. Tanto vale che ti abitui, no?»

Si voltò e sinuosamente com’era venuta, tornò dalle sue amiche.

Caleb sferrò un calcio a un tavolino, spedendolo nel lato più lontano della sala. Si sentì un idiota.

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Cap.8 – E digli, a chi mi chiama “rinnegato”

Giorno 105
L’ex palazzo Imperiale della Città di Dreniane

«Voglio sapere chi è quella ragazza!» disse Caleb.

«Te l’ho detto: è la nipote del Marchese di Zessal. O bisnipote, che so io… Non è stata riscattata perchè è di un ramo cadetto. Ne ha passate tante… non è davvero una persona che meriti altra sofferenza» rispose Gan, contrariato.

Caleb si sedette fissando l’amico con uno sguardo ironico.

«Beh se è stata così sfortunata, magari vorrà passare una notte di passione come non le capitava da tempo! Ho visto che mi guardava.»

«Ti taglieranno le palle se tocchi una danzatrice» disse Gan, con sempre maggior disappunto.

«Ci sono già andato vicino una volta: che mi cambia una seconda?» rispose Caleb.

Gan lo guardò: «ancora non so come hai fatto a salvarti dal coltello: che cosa gli hai raccontato?»

«Trucchi del mestiere, caro mio. Allora: come posso raggiungere la danzatrice vestita di verde?»

Gan sospirò. Era inutile opporsi a Caleb quando si impuntava. Erano giorni che gli parlava di quella ragazza, di cosa le avrebbe fatto sotto le lenzuola, di quanto lo eccitasse il rischio di essere scoperto.

«Prima dello spogliatoio, nella sala piccola, c’è una finestra interna protetta da una griglia. Quella dà sulla sala che le danzatrici usano per esercitarsi: serve per gli eununchi, per comunicare rapidamente tra loro senza fare tutto il giro dei corridoi. Da lì puoi vederla quando balla, ma non riuscirai a raggiungerla.»

«So già di che parli: l’ho già vista dalla finestra! Devo sapere come arrivare da lei e quando è la prossima danza!»

«Caleb…»

Il giovane si avvicinò minacciosamente a Gan, a pochi centimetri dal suo viso. Gan abbassò lo sguardo.

«Senti: ho detto che la voglio, mi segui? Se vuoi puoi aiutarmi a non farmi beccare, altrimenti vado da solo. Non farmi incazzare, Gan.» E poi scandì bene: «Come ci arrivo e quando è la prossima danza?»

Gan sospirò. «Le ballerine si esercitano ogni primo, terzo e quinto giorno della settimana, una volta all’alba e una al tramonto: quindi tra poco danzeranno. Ma ti ripeto che non so come arrivarci. Soddisfatto?»

Caleb corse via senza nemmeno ringraziare. Attraversò il corridoio degli appartamenti per i prigionieri nobili e lì, ovviamente, trovò Yusul a sbarrargli la strada.

«Eccolo qui, il nostro armadio» disse il giovane.

«Vuoi prenderle?» gli rispose l’eunuco.

«Senti: posso farti avere ancora un po’ di acquavite, tra un paio di giorni. A patto che mi lasci andare a vedere le danzatrici.»

«Tu non sa che giorno è oggi?» rispose l’eunuco.

«Non capisco niente chiuso sempre qui dentro! Che giorno è?»

Yusul, per la prima volta, sorrise. Era un sorriso perfido, astuto. Caleb non immaginava che quello scimmione nero, grassoccio e dalla faccia ebete, potesse assumere una tale espressione. Non aveva mai avuto timore dell’eunuco, fino a quel momento. Fece una pausa e poi chiese:

«Che… che giorno è oggi?»

«No importa. Noi andiamo vedere donne che balla.»

Ancora più sorpreso, seguì Yusul fino alla finestra sbarrata con la griglia. Caleb era confuso. Che cosa stava per succedere? L’eunuco lo lasciò posizionare lì e con sorpresa, gettò a Caleb un cuscino. Il giovane era sempre più perplesso.

D’improvviso, Yusul si avvicinò, imponente: Caleb scattò su in posizione di guardia. L’eunuco ghignò di nuovo e gli disse:

«Oggi primo giorno di luna nuova. Sacerdote deciso che oggi va bene. Aspetta te tra un’ora, per rito di purificazione. Spero che tu lavato corpo.»

“Cazzo. Non così presto. No! No! Noooo! Non proprio oggi!” pensò Caleb digrignando i denti. Non aveva neanche avuto tempo di dirlo a Gan. Non si era lavato e non gliene fregava nulla.

Il giorno prima, Yusul l’aveva portato dal sacerdote: egli lo aspettava già col coltello in mano. Stava per incidere le carni, quando qualcosa lo fermò: il suo servitore aveva fatto male i calcoli e aveva sbagliato giorno. “Il rito va fatto durante la luna nuova, con il sole nel segno del serpente bicefalo” aveva detto, prima di far condannare a morte il suo servitore. Caleb pensava che mancasse una settimana: aveva sbagliato anche lui. Aveva solo quell’occasione per prendere la danzatrice dal vestito verde, prima che fosse stato tutto diverso.

Yusul si voltò e andò via: lo lasciò da solo.

Le danzatrici entrarono scalpicciando con i loro piedi nudi sul marmo. Caleb cercò con lo sguardo la sua preferita: c’erano tre donne, tutte molto giovani. Una aveva lividi sul viso e piangeva, consolata dalle altre due. Una di quest’ultime era la ragazza vestita di verde. Le tre stettero a parlare a bassa voce, per un po’. Poi si accinsero a uscire.

«Psst!» sibilò Caleb dalla finestra.

Le ragazze si voltarono, allarmate.

«Sono io!» disse sottovoce Caleb. La danzatrice vestita di verde disse qualcosa alle sue compagne, che annuirono e si dileguarono. Poi si avvicinò alla finestra, con calma, cercando di non lasciar trasparire emozioni dal suo volto. Caleb la vide bene: aveva il viso chiaro, pallido e con qualche lentiggine.

«Sei tornato. Come hai fatto con le guardie?» gli chiese la danzatrice.

«Tra un po’ non saranno più un problema» rispose Caleb, atteggiandosi.

La ragazza lo guardò, annuendo con disappunto. «Allora hai deciso.»

«E’ oggi.»

Lei dapprima distolse lo sguardo. Poi fissò Caleb con aria fredda come le montagne del nord.

«Non guardarmi con quella faccia: non avevo scelta. E poi, con il tempo, potrebbe essere un vantaggio anche per te» le rispose Caleb.

La ragazza rise, ad alta voce. Caleb le intimò il silenzio con un gesto brusco.

«Vantaggi per me? E per cosa?» gli disse lei, sarcastica.

«Potrei anche liberarti, col tempo. Verresti con me.»

«E perché lo faresti? Per essere la tua concubina?»

«Perché…» Caleb esitò.

Meglio sembrare uno di quegli eroi delle fiabe, puri e senza macchia. «Perché voglio stare con te. Perché veniamo dallo stesso posto e…»

«… e perché vorresti vedere cosa c’è sotto questo vestito. Non è così?»

Caleb stava per fornirle una di quelle risposte che rifilava alle nobili rampolle lenvari, quando doveva portarsele a letto. “Morirei per giacere una sola notte con te”, “scalerei la montagna più alta del mondo per posare il mio viso sui tuoi seni” … ne aveva un campionario pieno. E le nobildonne ci cascavano quasi tutte, lasciandogli scivolare le labbra sul loro corpo, fino all’angolo più recondito.

La danzatrice sfilò l’abito in un secondo, gettandola a terra. I suoi seni sembravano due mele rotonde. Caleb rimase senza parole. La ragazza sorrise e sfilò anche la gonna. Una striscia di tessuto le copriva il grembo. Le gambe snelle erano lisce come le colonne delle cattedrali.

«Beh? Perché fai quella faccia? Non è questo corpo che desideri?» gli disse lei.

Caleb annuì.

«Come faccio a raggiungerti?»

«La porta alla tua destra, da dove è uscita la tua “guardia del corpo”. Vai a sinistra e sarai qui.»

Caleb non se lo fece ripetere. Si avvicinò alla porta e mise la mano sull’anello di ferro: prese un bel respiro e la aprì. Mise la testa nel corridoio: nessuno. Corse a sinistra e vide un’altra porta. Tirò l’anello: era chiusa. La colpì con un pugno, poi un calcio. Si rese conto che stava rischiando grosso e si voltò. Nessuno pareva essersene accorto.

Poi udì il suono del chiavistello: scattò indietro coi pugni serrati. La danzatrice era lì, vestita e sorridente.

«Vieni» gli disse.

Caleb la seguì al centro della stanza dove si esercitava con le altre. Negli angoli c’erano cuscini di tutti i colori e bassi tavoli con narghilè e piatti con spezie e fiori profumati.

Lei si sedette con un balzo. Caleb la seguì.

«Perché ti sei rivestita?» le chiese.

«Parliamo. E’ una rarità di questi tempi, tra due occidentali come noi, non sei d’accordo?»

“Maledetta stronza”, pensò Caleb. “Proprio ora doveva fare la sostenuta”. Cercò di camuffare i suoi sentimenti e fece un sorriso tra i più fasulli che gli fossero mai venuti.

Forse se avesse fatto presto l’avrebbe convinta: quei cuscini sembravano molto comodi. Sarebbero bastati pochi minuti per possederla e tornare prima che Yusul o altri se ne accorgessero. Prima del “rito” che lo avrebbe purificato.

«Non mi hai ancora chiesto come mi chiamo» gli disse lei.

“Che errore madornale”, pensò Caleb. «Possiamo rimediare a questo: qual è il tuo nome?» le disse.

«Bassra.»

«Tu sei la nipote del marchese di Zessal, vero?» le chiese Caleb. La domanda gli uscì dalla bocca con una tale naturalezza che si sentì stupido. Che gli importava di chi fosse figlia?!

Bassra lo guardò spalancando gli occhi. «Chi te l’ha detto?»

Ecco fatto! Me la sono giocata con la domanda sbagliata! Stupido!” «Voci. Non ricordo da chi l’ho sentito» rispose.

Caleb era sicuro che stesse toccando un brutto argomento: uno che gli avrebbe fatto perdere l’occasione di sfogare la sua passione su quella splendida creatura. Cercò subito di rimediare.

«Il tuo viso è splendido, Bassra: era molto tempo che volevo dirtelo.»

Lei rise.

«Questo è il complimento più goffo che ho mai ricevuto! E dire che i nobili khalimici sono tra i peggiori finti gentiluomini che abbiano mai popolato il mondo! Come siete buffi voi maschi che cercate di non essere porci, quando vi vestite di seta.»

Bassra si sdraiò sul fianco e poggiò la tempia sulla mano. Caleb iniziava a non farcela più.

«La tua vera opinione, Caleb Sigà, l’ho intuita prima, quando mi hai visto senza vestiti addosso» gli disse. «Puoi fare a meno delle parole. Se voi uomini soltanto imparaste che i vostri occhi parlano meglio delle vostre lingue. I vostri movimenti del capo, quando distogliete lo sguardo. Come serrate le mani o dondolate sulle vostre gambe.»

«Mi prendi in giro?» le disse Caleb che stava iniziando a irritarsi.

«Esattamente» rispose lei, divertita.

«Lo sai che potrei prenderti con la forza, qui? Nessuno ci sentirebbe.»

«Sei ancora più scemo, con questa risposta» disse lei ridacchiando e mettendosi supina, incrociando le mani dietro la nuca. «Chi vuole prenderti con la forza non ti avvisa prima. Tu hai bisogno che lo voglia anche io, Caleb, ma sei troppo orgoglioso per chiedermelo esplicitamente. Non è così?»

Caleb scattò su di lei e la baciò rapidamente. Bassra lo lasciò fare, ma dopo qualche istante lo staccò spingendolo via con forza.

«Non avrai altro da me. Sei uno di loro» gli disse.

«Ma di che parli? Io sono lenvare. Abbiamo poco tempo prima che torni l’eunuco! Anche tu mi vuoi!»

«Idiota!» saltò su Bassra. «Io voglio qualcuno che non si vende al miglior offerente rinnegando tutto, anche le sue origini! Non capisci niente! Tu fai finta di essere una persona per bene, ma sei solo un altro di quegli schifosi violenti che pensa di poter fare tutto quello che vuole! Lo sai perché IO sono qui?!»

Caleb la vide in piedi sopra di lui, le mani sui fianchi. Non sapeva se eccitarsi del suo essere focosa o incazzarsi per la perdita di tempo.

«Sei stata catturata, come me…»

«Non sono come te! Mio padre è stato ucciso nell’abbordaggio davanti ai miei occhi: i giannizzeri gli hanno tirato fuori gli intestini con due colpi d’ascia. Mia madre è stata violentata da cinque soldati e trasformata in concubina: si è impiccata dopo qualche mese. Mio fratello si è ammalato di febbre delle paludi ed è morto due mesi fa, mentre la mia sorella più piccola ha preso un colpo di lancia in testa, mentre tentava di difendermi. Adesso non ragiona più: fa pietà persino a quegli schifosi bastardi che stai per servire: la tengono come sguattera!»

Bassra ormai gridava come un aquila, mentre Caleb tentava a gesti di farla tacere.

«Tutto perché voi maledetti porci, maschi arrapati di sangue e sesso, non sapete che altro fare se non uccidere, stuprare, prendere quello che volete!»

Yusul entrò dentro con una tale foga da staccare la porta da uno dei cardini. Stavolta Caleb reagì: lo colpì al volto con tutta l’energia e l’odio che aveva in corpo. L’eunuco si fece indietro, tastandosi il naso: era una poltiglia rossa. Caleb non aspettò la reazione: gli sferrò un calcio dritto al ginocchio, spezzandolo. Yusul crollò a terra gemendo: Caleb gli sferrò un paio di calci nello stomaco con tutta la forza che aveva. L’eunuco ormai sembrava più un vitello che aspettava il macello che una montagna umana di aguzzino: piagnucolava sputando sangue e alzando il braccio in segno di resa.

Caleb gli prese la testa con una mano, un narghilè con l’altra e colpì. Una volta. Due. Tre, cinque, quindici, cinquanta. Finché la mano non gli fece così male da perdere sensibilità, finché pezzi di cervello dell’eunuco non furono sparsi sui cuscini di seta e piume. Lordo da capo a piedi di sangue, si voltò verso Bassra che lo guardava raggomitolata in un angolo, in lacrime.

Poteva scappare: prenderla e tentare la fuga. Forse ce l’avrebbe fatta. Ma fissandola non vedeva altro che un’ombra dai bordi confusi, un demone di bile verde dai capelli di fiamma che lo fissava con sdegno e paura. Si fece avanti, le mani protese: lei indietreggiò e si schiacciò contro la parete. Lui le fu sopra: le bofonchiò qualcosa gocciolandole sangue addosso. Lei gridò di terrore.

Poi i giannizzeri lo strattonarono via: Akhad Bey lo fissò, poi rivolse lo sguardo al cranio maciullato dell’eunuco.

Annuì e disse: «sei davvero pronto.»

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Cap.9 – Che tutte le ricchezze le ho lasciate al sole

Giorno 106
L’ex palazzo Imperiale della Città di Dreniane

Caleb non poteva fare a meno di notare le risatine di chi lo vedeva camminare a gambe divaricate, appoggiandosi alle pareti.

Tutti coloro che abbracciavano la fede dei Sei Profeti ci erano passati: la circoncisione era un rito obbligato. Farla da adulti era alquanto traumatico e Caleb lo aveva imparato, senza eufemismi, sulla sua pelle.

«Piscio di Sedune, quanto fa male!» disse sedendosi sul suo giaciglio. Poi fissò Gan e disse: «sembri un canarino vestito così.»

«I mammelucchi vestono in giallo» rispose Gan. «Così ci riconoscono meglio, se dovessimo scappare.»

Gan era stato accettato tra i mammelucchi, gli schiavi-soldato, reclutati tra gli infedeli più validi che rifiutavano la conversione. Gan era piuttosto abile, era in salute e di nobili origini: dopo qualche anno di servizio gli sarebbe stato chiesto di convertirsi come Caleb o avrebbe potuto pagare il proprio riscatto e tornare a casa.

«A vederti camminare non sembra che tu abbia fatto un grosso affare» disse Gan all’amico.

«A quanto pare,» disse Caleb tenendosi il pube, «volevano un pezzo di me a tutti i costi. Ma meglio questo che le palle.»

«Dicono che anche i nani lo fanno.»

«Cosa?»

«Togliere la pelle dal… Dicono che è meglio perché nelle miniere la terra si infila dappertutto ed è più igienico.»

«Ah certo: vedi qualche miniera qui?!» disse Caleb contrariato.

Un eunuco entrò nella stanza, dopo aver bussato. Dopo che Caleb aveva spaccato la testa di Yusul e non era stato punito, tutti gli eunuchi avevano paura di lui.

«Tu non devi più dormire con schiavo infedele» disse l’eunuco indicando Gan. «Livàn avrà una nuova stanza.»

«Chi è Livàn?» chiese Gan.

«Sono io. E’ il mio nome da convertito» disse Caleb. «Sigazal Adhun Livàn sarà il mio nome, d’ora in poi. Eunuco, porta il mio fagotto nel mio nuovo alloggio.»

I due lenvari si guardarono in silenzio, appena furono soli. Gan annuì leggermente: «Ci siamo. E adesso cosa farai?» chiese.

«Che vuoi che cambi: bestemmierò i Sei Profeti, al posto dell’Eterno» rispose sorridendo Caleb. «Cerca di non farti ammazzare» aggiunse.

«Cerca di non perdere anche resto del tuo nuovo uccello» rispose Gan.

«E’ la prima volta che fai una battuta decente» disse Caleb alzandosi. «Proprio ora che vado via.»

Giorno 561
L’accampamento d’assedio presso le mura di Calisaba.

Livàn fece del suo meglio per lavare via il sangue dalle mani, e mise il suo vestito migliore. Il braccio destro era ancora indolenzito e sulla pelle delle dita c’erano i segni dell’impugnatura della spada.

Due giannizzeri lo scortarono alla tenda del Sultano. Egli era giovane quanto Livàn: indossava un caffetano blu decorato da fregi d’oro. La sua barba castana era perfettamente curata, con il pizzo appuntito.

Gli ambasciatori si dileguarono tra mille salamelecchi.

«Akhad Bey, è questo il giovane capo-cuoco di cui mi hai parlato?» disse il monarca.

«Sì, vostra Luce» rispose il Bey.

«Avvicinati» disse a Livàn.

Il Sultano lo guardò fisso negli occhi, poi lo osservò da capo a piedi. A Livàn sembrò di vedere un mezzo sorriso dietro la barba.

«Akhad Bey dice che non hai esultato e pregato prima di decapitare i prigionieri. Lo ha detto il tuo ufficiale a lui, e lui a me. Corrisponde al vero?» chiese il Sultano.

A Livàn questa domanda sapeva di trappola. Era strano che un Sultano avesse interesse per un semplice capo-cuoco dei giannizzeri, come lui. E perché Akhad Bey aveva parlato di lui al Sultano? Presto lo avrebbe scoperto.

«Sei stato convertito da poco. Forse la tua fede non è ancora così salda» aggiunse il Sultano guardando il Gran Sacerdote, un vecchio dalla barba e vesti bianche, temuto da tutti: le fosse comuni erano piene di eretici uccisi per suo ordine.

“Sembrerebbe una prova di fede”, pensò Caleb. Il Sultano non era noto per essere un fanatico: perché quella domanda?

Dare del bugiardo al Bey o al suo ufficiale significava frustate, qualche osso rotto e finire la sua carriera come mendicante. Se avesse ammesso di essere ateo, sarebbe stato lapidato e bruciato vivo. Poteva rispondere di essersi scordato di pregare, per l’estasi della battaglia: questo poteva significare la castrazione, in modo da renderlo placido e più malleabile.

«Non rispondi?» chiese il monarca.

«Vostra Luce, misuro le parole nella mia mente perché io sia ben compreso» rispose Caleb.

«O forse per cercare scuse» disse il Gran Sacerdote con la sua voce sgradevole. «Sai perché i gradi dei giannizzeri riflettono il loro ruolo in cucina, capo-cuoco? Per ricordarvi che voi siete servi del Sultano ed egli può disporre di voi come crede.»

«Rispondi la verità. La verità non conosce modi di essere spiegata: semplicemente è. Rispondi ora o dovremo dare ragione al Sacerdote» disse Akhad Bey.

Molto bene”, pensò Caleb. “Mi ha suggerito cosa fare.”

«Non ho pronunciato parole di gioia per la morte dei prigionieri. I Profeti piangono per loro, come ci hanno insegnato. Piangono per ogni morte. Non occorre disturbare il loro pianto con parole di giubilo, in un momento di tristezza.»

«Fandonie!» gridò il Sacerdote battendo il bastone per terra. «L’esecuzione degli infedeli non è paragonabile a quella dei Giusti. I Profeti non piangono per essi, ma gioiscono.»

«Perdono, Maestro» disse Caleb con un mezzo inchino. «Questo è ciò che ho letto nei testi sacri: “Ad ogni anima chiamata nell’altro regno, qualunque morte la strappi, noi versiamo dieci lacrime per ognuna.”»

«Ma questo non riguarda gli infedeli!» tuonò il Sacerdote. «E’ detto chiaro dal Profeta Udhur: “chi non abbraccerà la nostra fede, pagherà il prezzo, anche con la vita!”»

«Penso si riferisse al prezzo della decima che imponiamo a coloro che non si convertono» ribatté Caleb. «Chi rifiuta questa, morirà. Ecco perché c’è un “anche”, tra le due frasi.»

«Abbiamo discusso abbastanza di teologia» disse il Sultano, riportando l’ordine. «Lasciatemi solo con Sigazal Adhun Livàn.»

Caleb sorrise dentro di sé. Aveva scelto la bugia migliore.

«Un soldato abile. Un marinaio. E capace di mentire al Gran Sacerdote e al Sultano nel modo migliore possibile» commentò il sovrano. Livàn tornò per un secondo Caleb e impallidì.

«Non do molto ascolto alle parole dei sacerdoti, ma rispetto la Fede che viene dall’alto. Le tue sono doti interessanti. E’ stata la mia seconda moglie a parlarmi di te, oltre ad Akhad Bey. Dice che ti eri invaghito di una delle sue ballerine. E’ così?»

«Erano interessi più carnali, Vostra Luce» disse Livàn. Mentire ulteriormente non sarebbe stata una grande idea.

«Sai mischiare sincerità e menzogna con l’abilità di un ambasciatore.» Il Sultano sorrise. Indicò un separé all’interno della tenda, che lasciava intravedere un ricco salotto e un lussureggiante giaciglio.

«Vieni» disse. «Abbiamo molto di cui discutere.»

Caleb annuì.

Cap. 10 – Epilogo

Residenza sul mare di Akhad Bey
Giorno 602

«Che cosa dovrei fare?» chiese Livàn.

«Portagli un regalo» gli disse Akhad Bey. «Sua Luce il Sultano ti nominerà Bey, se il dono lo soddisferà appieno. Sai che è un uomo di parola.»

Livàn osservo gli arabeschi di stucco che riempivano le pareti, tutti con la stessa medesima frase: “l’Uomo non può vincere; solo i Profeti.”

«Ci credi davvero?» chiese.

«L’Uomo ha bisogno di credere. Quando crede in qualcosa, tutto diventa più potente, sacro, necessario, di valenza divina.»

Il Bey mise un cilindro forato di metallo attorno al lumino ad olio: sulle pareti furono proiettate le sagome di luna e stelle, in un pittoresco firmamento. Poi il Bey riprese: «ogni atto, anche il più misero o disdicevole, diventa nobile se viene illuminato da una prospettiva nuova. Questo è quello in cui piace credere: che ci sia del divino nel nostro agire.»

«E non è rilevante che questo dio non parli mai, se non per bocca di qualche uomo?»

Il Bey gli sorrise. «Per questo è meglio che tu sia amico di quell’uomo.»

Colonia lenvare di Agata – penultimo piano della grande torre.
Giorno 603

Caleb entrò nella stanza, le pareti di pietre fredde e tondeggianti che i lenvari avevano impilato per creare quella torre alta sessanta metri.

Dalla finestra si intravedevano le possenti mura triple della città di Calisaba, che avevano resistito a secoli di guerre. Soltanto il gigantesco estuario del fiume Thalamor separava Agata, enclave commerciale lenvare, da quell’ultima grande città del Regno Imperiale di Essava: Il Sultano di Khalim la stava assediando da mesi ormai e la sua caduta era vicina.

Un uomo stava curvo davanti alla finestra, seduto su uno sgabello. Nonostante il clima mite vestiva di una pesante tunica, scura e logora, e portava sulla testa una cuffia di lino che lo rendeva piuttosto ridicolo.

Livàn richiuse la porta. L’uomo si voltò: aveva la barba ispida e grigia, era magro sofferente in visto.

«Sta per cadere, vero?» disse.

«Ieri notte il Re Imperiale ha fatto tenere una grande messa nel Tempio della Sacra Sapienza. Trai le tue conclusioni» rispose Livàn.

«Allora se la sta vedendo davvero brutta» commentò suo padre.

Avidan Sigà tossì e sputò sul pavimento. Poi fissò la caraffa che Livàn reggeva nella mano destra.

«Ti ho portato del vino, vecchio» disse il figlio.

«Di Garosta? Lo sai che quello mi piace più di tutto. Brindiamo alla fine del Regno Imperiale» disse Avidan.

«Io non posso più bere, lo sai» rispose Livàn.

«L’hai presa proprio sul serio questa cosa della conversione, vero? Quante mogli puoi avere, in tutto? Sei? Otto? Sai che vita con otto mogli?! Dalle nostre parti rompe le palle già una sola!» disse versandosi da bere. Prese il bicchiere e lo portò alle labbra.

«Perché non mi hai riscattato?» disse improvvisamente Livàn.

Il silenzio piombò nella stanza. Avidan annusò il liquido rosso, lo alzò e lo osservò controluce.

«Sembra davvero sangue. Ci piace tanto a noi bastardi, questo colore» disse Avidan.

Caleb chiuse gli occhi e serrò i pugni. Il cuore gli batteva a mille. In un solo istante, centinaia di pensieri sfondarono la sua mente come un fiume in piena abbatte gli argini che goffamente gli uomini mettono sul suo cammino. Pensieri di spade, di galee, madri, sberle in faccia, veleno, abbordaggi, vento e vele.

Fece un passo in avanti e tolse il bicchiere dalla mano del padre: «perché Fidan e non me?» ripeté.

Avidan lo guardò con sufficienza. «Sei crudele a privarmi del vino, dopo mesi passati a bere birra annacquata e piscio di topo! Fidan… è un coglione: meritava di morire. Ma è sempre mio figlio: non potevo lasciare che lo ammazzassero. Ho lasciato credere al Bey che lui valesse più di te. Non aveva speranze: non poteva diventare mammelucco né giannizzero come te. Poteva salvarsi solo tornando con me a Lenvar. Così ho deciso di riscattare lui.»

«E te ne sei sbattuto di me!»

«Non dire cazzate!» rispose Avidan saltando in piedi. Per un istante il vecchio curvo tornò ad essere il pirata. «Ho fatto la cosa migliore per te!»

Strappò di mano il bicchiere a Livàn e lo vuotò. Poi se ne versò ancora. Ricadde a sedere sullo sgabello. Un gabbiano passò sfrecciando davanti alla finestra, urlando verso il cielo.

Avidan si passò una mano sul volto e disse: «sapevo che avresti fatto carriera. Akhad Bey ti ha accettato subito: ha capito quanto valevi. Stando con loro, coi khalimici, avresti vissuto quella vita che io non ti potevo dare. Senza galee, ormai non valgo nulla. Tuo zio ha venduto la casa ai Fedra per pagare il mio riscatto e non è nemmeno bastato. Così ha pure impegnato il resto della mia roba. Mi ha detto che appena tornerò, gli usurai nani mi toglieranno anche la spada e l’armatura.

Terminò un altro bicchiere, sotto gli occhi di Livàn. Sul viso del figlio nessuna emozione.

«Questo vino non è molto carico!» protestò Avidan. «Dì un po’: mi hai preso per una femminuccia? Quanto ne devo bere per sentire qualcosa, Caleb?»

«Sono Sigazal Adhun Livàn, non far finta di non saperlo» rispose il figlio.

«Ah sì, il tuo nuovo nome da infedele. Nuovo ma non molto nuovo: “Sigazal”… “Figlio di Sigà”. Non hai saputo rinunciare a ricordare a tutti che ti ho generato io.»

Avidan tracannò il vino direttamente dalla caraffa, spaccandola a terra una volta terminata. «Hai da mangiare?»

«Che farai adesso?» chiese Livàn, ignorando i suoi modi.

«Tua madre s’è chiusa in convento, ora che non abbiamo più una casa. Non ho più un cazzo in patria e non intendo tornarci per pagare quegli schifosi nani: tornerò a fare il marinaio, finché non creperò in qualche abbordaggio o tempesta» disse ridacchiando.

«Quale convento?» chiese Livàn.

«Eh?»

«In quale convento si è chiusa mia madre?»

«Che cazzo ne so. Non la rivedrò più.»

Livàn lo afferrò per il bavero e lo spinse contro il davanzale.

«Quale convento?!» chiese nuovamente, con gli occhi fuori dalle orbite.

«Lo so, ti ho deluso. Ma a me non frega niente di nulla, Caleb! Io ho sempre agito scommettendo, nella mia vita. Ogni viaggio per mare, ogni scopata con una sconosciuta, ogni duello, ogni abbordaggio! Non so vivere diversamente e a voi, figli miei, ho insegnato questo. E tu sei quello che è andato più lontano. Tu sei quello che mi assomiglia maggiormente. Sei riuscito a fare molto di più di quanto non abbia fatto io. Tu e Sigurd eravate i migliori. E in modo diverso, vi ho perso entrambi.»

Livàn restò in silenzio.

«Senti, stronzo: io non ti pregherò! E’ questo che vuoi?! Vuoi buttarmi dalla torre? Fa pure! Io non ho bisogno di te!» urlò Avidan.

Livàn lo lasciò scivolare al suolo, la schiena appoggiata al davanzale.

Avidan si portò le mani al petto.

«Mi sento il cuore in gola. Si vede che sto invecchiando. Devo riposare. Vattene adesso, non voglio che tu mi veda in questo stato! Vai a scoparti le tue otto mogli, sempre che tu sappia come si fa! Sempre che non ti piaccia il cazzo!»

Livàn fissò il padre negli occhi. A costui parve per un secondo di rivedersi allo specchio. O di vedere il mare, sì. Le onde del mare, scure, che lo inghiottivano.

Quindi il figlio uscì.

«Ehi! Non vuoi nemmeno sapere dov’è tua madre?! Sei sempre stato attaccato alla sua sottana e adesso ti sei scordato di lei!» sbraitò Avidan. «Devo andarmene di qui: devi procurarmi una nave! Dove cazzo vai?»

La sua voce si era fatta affannosa. «Giuro che se ti rivedo ti strappo le palle e te ne andrai a fare l’eunuco come dovevi fare da subito! Brutto figlio di troia! Tu non sei mio figlio, hai capito?! Non sei mio figlio!»

Livàn scese le scale, le guance rigate dalle lacrime.

Gettò da una feritoia la boccetta vuota di oleandro che aveva versato nel vino e si asciugò il viso: non poteva permettersi mai più di piangere.

Non sarebbe stato più Caleb: mai più.

Sigazal Adhun Livàn aveva davanti a sé una brillante carriera da costruire, come Bey del Sultano.

FINE


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