un racconto di Lorenzo Fabre

«Non ricordo nessuno dei compleanni di mio padre» disse Luís. «Voglio dire: non me lo ricordo scartare i pacchi o soffiare su una torta, con quei numeri giganti che qualcuno si diverte a invertire per farti sembrare più vecchio. È come se non ne avesse mai festeggiato uno. Eppure, lo facevamo ogni anno.»
«Dovrei commuovermi?» rispose João.
«No. Ma ogni tanto potresti riflettere» obbiettò Luís.
«Che ti frega se non li ricordi? A lui di sicuro non importava del suo compleanno ma del tuo. Che tu fossi felice, vedere la tua faccia quando ti regalava… che ne so: una pistola giocattolo.»
«Questa però è vera» gli rispose Luís sollevando la 44. João ci mise la mano sopra di scatto, facendogliela abbassare.
«Mettila giù, idiota! Se ci vedono finiamo in una bara! Pensi che il pick-up sia antiproiettile?!»
«Non ci vedrà nessuno. Sono due ore che aspettiamo che Barbados passi di qua» disse Luís.
João distolse lo sguardo e lo rivolse fuori dal finestrino. Poi pinzò la canottiera del Brasile con due dita e cominciò a scrollarla avanti e indietro. «Ci saranno cinquanta gradi» disse tenendosi la fronte con l’altra mano.
«Tu ricordi un compleanno di tuo padre?» gli chiese Luís. «Almeno uno?»
«Manco so chi è» sbottò João sputando fuori.
«Di tua madre, allora?»
«Senti, perché devi rompere, eh? Non è già abbastanza palloso stare qui ad aspettare quel ciccione isolano e rischiare una raffica di AK da una di queste baracche da morti di fame?»
«Ci vivevi anche tu fino a due anni fa» obiettò Luís.
«Sì, e poi mi sono dato una svegliata» disse João, abbassando l’aletta del parasole. Digrignò i denti e se li guardò nello specchio.
«Dovresti andare dal dentista» gli disse Luís, tamburellando le dita sul volante. «Adesso che non vivi più in quelle “baracche da morti di fame”.»
«I miei denti stanno che è una meraviglia. Puoi chiedere ad Angela, visto che li sente mordicchiarla ogni notte!» esclamò João emettendo una risata fasulla.
«Angela ha un figlio, vero?» chiese Luís.
«Sì, del suo ex. Un giorno lo becco quel bastardo e gli sparo nelle palle. Però al bambino non gli faccio niente. Voglio dire… è anche un bimbo intelligente, per essere figlio di quell’imbecille. O forse manco è suo. Si vede, però, che ha preso da Angela.»
«Glielo hai fatto il regalo per il compleanno, vero?» gli chiese Luís.
João lo fissò sgranando gli occhi.
«Al piccolo, glielo hai fatto il regalo?» incalzò Luís.
«Senti, ma che hai oggi? Vuoi aprire un negozio di biglietti di auguri? È piccolo, non lo capisce che compie gli anni. E poi manco lo so quando è il suo compleanno.»
«Tu stai con sua madre!» lo rimproverò Luís.
«E quindi? Mica è figlio mio!»
«Hai intenzioni serie con lei?»
«Certo che ce le ho. Per chi mi hai preso? Ok… a volte sai, se sono da Paulinho e mi si avvicina qualche bella tipetta… una ripassata gliela do, ma non significa niente. Cioè, voglio dire… è solo per fare un po’ di movimento, capisci?» disse stringendosi con la mano il cavallo dei pantaloni. «Ma io voglio stare con Angela e magari me la sposo pure, un giorno. È in gamba, e soprattutto sa quando stare zitta.»
«Perché te la fa passare liscia quando ti fai le altre?»
«Nah… se non lo sa, non ci soffre» lo liquidò João. «E poi che cazzo! Ma chi sei, un prete?» sbottò. «Mi fai sentire una merda, e io divento nervoso quando mi fanno sentire così!» esclamò, iniziando ad agitare l’Uzi che teneva tra le ginocchia.
«Fai un regalo a quel bambino, almeno» intimò Luís. «Suo padre sarà anche un imbecille, ma non per questo si merita un patrigno stronzo. Fagli un regalo: mostra che te ne frega qualcosa.»
«Patrigno?! Amico, ma vivi nel medioevo? Io non sono il suo “patrigno”: mi sbatto sua madre e basta!» protestò João. Poi anticipò il suo socio: «ok, non cominciare con quello sguardo. Senti… sono il fidanzato di sua madre, d’accordo? Il bambino sta lì solo perché c’era da prima di me e me lo tengo. Se non c’era, io me la facevo lo stesso sua madre e a me non cambiava niente.
«Se non ci fosse stato» lo corresse Luís.
«Chi?»
«Lascia perdere» disse Luís, scuotendo la testa.
Una signora che trascinava un carrellino si fermò a fissarli. João le fece il gesto di sparire. Lei si girò con calma e ubbidì.
«Ora finisce che questa vecchia lo dice a qualcuno» sussurrò João controllando il caricatore.
«Questa pistola era di mio padre» disse Luís, fissando il revolver.
«Gli piacevano i grossi calibri, eh?» commentò João.
«Diceva sempre che se decidi di sparare, se veramente sei pronto a ferire una persona, devi farlo per uccidere. E allora meglio esserne sicuri» disse Luís.
«Ben detto. Allora era meglio che c’era lui qua adesso, invece che te. Almeno non mi rompeva con ‘sti discorsi.»
João aprì la portiera e scese, nascondendo l’Uzi sotto la canottiera gialla.
Dalla favela proveniva il solito misto di rumori: palloni che cozzavano contro i muri di cemento scrostato, abbaiare di cani, qualche donna che sgridava il marito ubriaco. Si guardò attorno, serrò le labbra e tornò in auto.
«Per me oggi non passa» disse. Attese ancora un secondo e poi chiese: «tu ce l’hai un figlio?»
«Sì, sta per andare alle superiori» rispose Luís.
«E sei sposato o divorziato?»
«Siamo sempre insieme, da vent’anni… mia moglie fa le pulizie in un albergo in centro, non lontano da dove abitiamo.»
«Cioè mi stai dicendo che sei scemo, “professore?”» chiese João sghignazzando. «Tua moglie lavora in centro, tu parli tutto preciso come un avvocato del cazzo, avete un figlio e una casa… perché ti fai sparare addosso da gente come me per due spiccioli e intanto mi fai la lezioncina su come devo trattare Angela? Cioè, amico… tu non puoi insegnare niente a nessuno se accetti tutta questa merda per Dio solo sa cosa» esclamò João, facendosi il segno della croce e baciando il piccolo crocefisso d’oro che portava al collo.
«Mi hanno licenziato un anno e mezzo fa» spiegò Luís, guardando il cielo. «Lei non lo sa ancora e pensa che io sia in giro a riparare impianti, come sempre. Quando i soldi hanno iniziato a finire, sono andato dal nostro capo: lo conoscevo da bambino. Così mi ha dato questo “lavoro”.»
«Beh, tua moglie lo saprà quando sparirai in una di queste vie e le tue ossa saranno spolpate dai maiali. Col tuo grasso ci faranno il sapone, poi. Trova un altro lavoro da elettricista o… quel cazzo che facevi prima, no?» disse João.
«Erano impianti informatici. Dopo l’epidemia tutti hanno iniziato a lavorare da casa e non c’è più bisogno né di uffici, né di impianti.»
«Beh allora vai a lavorare per una compagnia telefonica!» sentenziò João.
«Assumono solo immigrati che possono sottopagare.»
«Amico, meglio sottopagato che morto.»
«Tu allora perché non fai un altro lavoro?» chiese Luís.
«Perché io non so fare un cazzo, a differenza tua. Cioè, mi posso sbattere tutte le fichette che voglio schioccando le dita, ma con quello non ci campi e io non so aggiustare manco il tostapane di Angela! Io sono bravo a spaccare vetrine, a incendiare serrande e uccidere. Uno deve fare quello che è bravo a fare. E allora, prof, tu è meglio che torni a casa finché sei in tempo, porti un bel mazzo di fiori a tua moglie, le dici che hai perso il lavoro e vedete che fare. Tanto le donne c’hanno sempre buone idee quando si tratta degli altri. Voglio dire… fanno schifo a decidere per loro stesse perché sono sempre a pensare a quelle cazzo di storie d’amore dei film, ma sugli altri ci azzeccano!»
Luís non rispose, Stette per due interminabili minuti in silenzio.
Poi aprì lo sportello, giro l’angolo e iniziò a camminare lungo la discesa.
«Che cazzo fai?!» disse João tra i denti «Ti vedranno!»
«Vado a casa. Hai ragione su tutto.»
«Torna qui, idiota!» gli urlò João.
Gli corse dietro. Il colpo di fucile lo mancò di un soffio e colpì un palo stradale tutto storto e arrugginito.
João si lanciò dietro un muretto, investito da proiettili e insulti nello slang delle favelas. Luís, intanto, correva a perdifiato per la discesa, lasciandolo alla mercé degli assalitori.
Il suono delle raffiche dell’Uzi, rapide e nette, si attenuò, mentre Luís si infilò nel dedalo di vicoli e anfratti tra casa e casa, dentro la puzza di piscio e di fritto, tra i ragazzini con indosso maglie di squadre italiane che lo guardavano a metà tra il sorpreso e l’annoiato. Fu un anziano seduto sull’uscio di casa, con gli occhi sbiancati dalla cataratta, che gli puntò contro una doppietta da caccia e lo spinse a tornare sulla strada principale.
Il pick-up blu inchiodò davanti a lui sollevando una nube di polvere.
«Sali a bordo, coglione!» gli urlò João.
Luís aprì la portiera. Altri colpi esplosero contro il mezzo. Si buttò dentro e João sgommò via.
Luís si accasciò sul cruscotto. La pistola gli cadde di mano.
Il sangue gocciolava sul tappetino.
«Fratello, stai sveglio!» lo esortò João, guardando con un occhio lui e uno la strada.
«Mio figlio…» disse Luís… «Merita di meglio.»
«Si, tipo un padre meno imbecille!» urlò João. «Forza amico, che dobbiamo raccontarglielo di quella volta che hai rischiato di crepare a Paraisópolis!»
«Parla con lui… digli che studi, che vada via da qui… spiegagli tutto…» disse debolmente Luís.
«Forza, respira! Non ho intenzione di scaricare il tuo cadavere nella baia, stanotte!» urlò João, sudando freddo.
«Diglielo… ti prego, Jo…» disse Luís.
* * *
«Assomigli a tuo padre, sei alto quasi come lui» disse João guardando il ragazzo. Si alzò dalla panchina, osservando Angela e la moglie di Luís chiacchierare mentre spingevano un passeggino nel luna park affollato.
«Senti, io ho un altro regalo da darti» fece João, mettendo una mano nella tasca della giacca ed estraendo un panno dov’era avvolto qualcosa di pesante. Lo diede al ragazzo e poi continuò: «buon compleanno… Aprila quando sei da solo. Era di tuo nonno e poi di tuo padre. Non farla mai vedere alla tua mamma e non dirle che te l’ho data io. Di sicuro tuo padre voleva così. Ho solo un nome da farti: Barbados. Quando sarai grande abbastanza, fagliela pagare! E ora nascondila nello zaino.»
Il ragazzino annuì. João sorrise e gli scompigliò i capelli sorridendo.
Poi si voltò, allargò le braccia, sfoderò un sorriso smagliante e disse: «Chi vuole andare a fare il tiro a segno? Tanto vincerò io: sono sempre il migliore quando c’è da spaccare qualcosa!»
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