Medici e Chirurghi nella Genova Medievale – Seconda Parte

Benvenuti nella seconda parte sulla vita e attività dei medici e chirurghi a Genova nel Medioevo. Se vi siete persi la prima parte, dove affrontavamo vita e compensi dei medici “physici”, potete trovarla qui oppure nell’ottimo sito Genova Medievale.

Dopo aver parlato dei medici propriamente detti e di come, a Genova, non fossero stati trattati inizialmente in maniera né troppo benevola né lautamente remunerati, meritano ora adeguata menzione coloro che maneggiavano le lame, e non mi riferisco ai soldati.

Chirurghi e barbieri a Genova nel medioevo

La chirurgia è una disciplina che esiste dalla preistoria e ha seguito lo sviluppo umano di pari passo. Nel paradosso di essere considerata dai dotti physici un’arte minore, è forse quella che più di tutte ha subito progressi e trasformazioni nei secoli, che la medicina “interna” vedrà ingenti solo a partire dalla scoperta dei batteri. Inizieremo con una visione d’insieme del chirurgo medievale e poi vedremo come si comportavano i chirurghi genovesi.

La “Medicina Esterna” tra dotti e praticoni

Dato che abbiamo citato il papa-medico Pietro Ispano sparlare dei medici, non possiamo non chiamare al banco dei testimoni anche un chirurgo medievale, il fiammingo Thomas Scellinck, e leggere come descrivesse i colleghi. Egli scrisse:

“La maggior parte dei chirurghi sono ignoranti […], spacconi, gradassi e truffatori, che cercano sempre di calunniare i chirurghi sapienti.”

Non molto gentile, dunque. Mentre il collega Jan Yperman, sempre nel periodo medievale, definisce la sua figura di chirurgo ideale:

 “Il chirurgo deve avere delle ottime mani e delle dita affusolate. Egli sarà di corporatura robusta, e non si dovrà mai lasciare vincere dalle emozioni. Egli avrà vista sicura, idee costantemente chiare […]. Non deve conoscere solo la medicina, ma i libri sulla natura e sulla filosofia […]. Egli non adulerà se stesso, […] consolerà sempre il paziente, […] dai ricchi chiederà ingenti salari, dagli altri quanto possono pagarlo a seconda delle loro finanze, e curerà i poveri per l’amor di Dio che gliene ha dato la possibilità.”

Rincuorati dalle sue parole, proviamo a cercare ulteriore riscatto della categoria leggendo le parole di uno dei chirurghi più famosi del medioevo, Henri de Mondeville:

“I medici [intende i physici, NdR] non fanno altro che ciarlare” (quindi non si sporcano mai le mani), mentre i chirurghi “sono superbi e pomposi” ma “totalmente ignoranti. […] Non vedo tra i miei colleghi nessun chirurgo che sia incline allo studio; pochissimi sono letterati; se ce ne sono, o sono in numero esiguo oppure sono interamente avidi di denaro.”

Perché tanto accanimento da parte degli accademici? C’è un motivo. Vediamolo insieme.

I barbieri-chirurghi

L’arte chirurgica, considerata un “male necessario” dalla casta snob dei sanitari togati e non particolarmente amata dalla Chiesa (che la lasciava nelle mani degli Ordini minori), nella prima fase del Medioevo era esercitata per lo più da barbitonsori o barbieri chirurghi illetterati che, tra un taglio di capelli e una spuntata alle unghie, si dilettavano anche in salassi, riduzione delle fratture, incisioni di ascessi ed estrazioni dentarie. Erano assistiti dai loro “garzoni” ovvero i barbierotti, che ne apprendevano l’arte per poi esercitarla a loro volta. Privi di qualsiasi accademia ma, più o meno dal tardo ‘200, dotatisi di ordini professionali ben strutturati, i barbieri chirurghi imparavano l’arte usando gli animali o gli stessi pazienti come campo di addestramento, non di rado essendo analfabeti o comunque privi di specifici testi di riferimento fino al tardo medioevo/rinascimento. Per questo, il chirurgo era il grande sperimentatore del suo tempo, talvolta a scapito dei pazienti a lui contemporanei ma, aumentando le sue capacità e conoscenze, a beneficio di quelli futuri.

Curiosamente, l’odierna insegna dei barbieri, ovvero il palo a strisce bianche e rosse (oggi rotante e anche blu), deriva proprio dall’origine sanitaria di questa categoria. Veniva infatti esposto da quei barbieri-chirurghi che praticassero i salassi; un paletto veniva fatto stringere dal paziente per distendere le vene e il bianco e il rosso rappresentavano le garze insanguinate; la spirale era forse un riferimento al serpente avvolto al bastone di Asclepio, ancora oggi simbolo dei medici, o al doppio serpente del caduceo di Hermes, emblema dei farmacisti (simboli tuttora ampiamente confusi tra loro).

Il palo da barbiere esposto fuori da una bottega
kim traynor / Barber’s pole, Drummond Street / CC BY-SA 2.0 – Wikimedia

Le operazioni chirurgiche e le specializzazioni nel Medioevo

Il chirurgo di qualsiasi foggia, inizialmente, non godette di ottima fama. Secondo Mondeville, ciò era dovuto alla sua attività sanguinolenta, tanto da spingerlo a pratiche turpi – da linee guida medievali –  come assaggiare il sangue dei pazienti proprio come il medico faceva con l’urina (eww!).

Eppure, non bisogna (necessariamente) immaginare il chirurgo medievale come un macellaio voglioso di aprire pance: gli spettavano più che altro lesioni odontoiatriche, urologiche, ortopediche o cutanee (es: fistole, cisti ecc.). Varie, infatti, erano le patologie che richiedevano comunque un doppio approccio medico-chirurgico, ad esempio i diffusissimi calcoli renali (il “mal della pietra”). È facile immaginare che le operazioni chirurgiche che oggi chiameremmo “open”, non potevano avvenire con la frequenza odierna e anzi, nel caso dei trattati sulle ferite belliche, spesso si esortava il curante a lasciare la perforazione dell’addome “nelle mani di Dio”, perché un intestino perforato o necrotico era causa di morte quasi certa. Però, grazie ai paleontologi, sappiamo che le trapanazioni craniche si effettuavano da tempi preistorici e che il paziente non di rado sopravviveva anni dopo tale intervento, nel medioevo molto praticato non solo per alleggerire eventuali raccolte di sangue pericolose, ma anche –  perché no –  per allontanare ipotetici demoni dalla testa di pazienti evidentemente escandescenti.

Esempio di trapanazione cranica nella Siberia pre-nascita di Cristo. Il paziente sopravvisse anni dopo l’intervento, come si vede dall’orletto di osso neoformato attorno al sito di trapanazione.
Fonte: Institute of Archaeology and Ethnografy of the Siberian Branch of Russian Academy of Sciences

Odiernamente, il chirurgo si specializza in qualcosa (come il neurochirurgo). Se è vero che nel medioevo “tutti cercavano di saper far tutto”, anche all’epoca si crearono comunque piccole aree di eccellenza: nel ‘400, a Norcia e nel borgo di Preci, si sviluppò una scuola di chirurgia “autoctona” ed “empirica”, specializzata in particolare in chirurgia oculistica (per la cataratta, vi risparmio la descrizione della tecnica medievale per amor vostro), nelle ernie inguinali e nella litotomia (rimozione dei calcoli renali). In zona si praticava anche la chirurgia veterinaria (castrazione di animali) e si sviluppò quindi una scuola laica. Alcuni chirurghi norcini/preciani guadagneranno la fama nelle corti di mezza Europa.

Nel ‘500 poi, inizia anche un incredibile viaggio nella chirurgia ricostruttiva, con la rinoplastica secondo Gaspare Tagliacozzi, affascinante quanto geniale tecnica usata fino al 1800, usando un pezzo di cute del braccio per ricostruire il naso, separando il lembo di pelle dall’arto solo dopo alcuni giorni, in modo da attendere che fosse vascolarizzato adeguatamente dal viso (non fosse chiaro, l’immagine sottostante descrive meglio).

La rinoplastica secondo Tagliacozzi. Ti attacco un braccio in faccia per un mese e il tuo naso è come nuovo!
Fonte: De curtorum chirurgia per insitionem, 1597, di Gasparo Tagliacozzi 

Il chirurgo laureato

 Appreso quanto la chirurgia fosse un’arte complessa, alla categoria dei praticoni improvvisati si affiancarono nel tempo figure accademiche: il cerusicus / cirurgus / surgicus “puro” (che spesso spillava ai nobili qualche soldino sonante) o il “medicus praticus” più alla mano, che faceva un po’ da physicus (il medico teorico) e un po’ da cerusicus e dispensava la sua arte tra la popolazione più variegata.

Dal 1200 si assistette poi a un netto cambio di passo nella considerazione del chirurgo. Prima di allora, a Genova, egli era considerato un consulente del physicus: prendeva ordini e prescrizioni solo dal medico per legge, anche se l’attività “in nero” era estremamente diffusa. Dalla scuola francese e italiana sorsero individui di incredibile levatura come Guglielmo da Saliceto, Ugo de’Borgognoni e suo figlio Teodorico, Henri De Mondeville, Guy de Chaulliac, fino al geniale barbiere Ambroise Paré del 1500, quando i grandi atenei erano fucine di chirurghi togati capaci di scrivere interessanti manuali e trattati diffusisi in tutta Europa. Anche gli arabi andalusi ebbero in Albucasi il loro degno rappresentante, anche se paladino strenuo della cauterizzazione (ahia!). Nel 1490, l’università di Parigi aprì le porte anche ai barbieri chirurghi, nobilitando quindi le loro esperienze e aiutando l’umanità a consacrare i talenti tra loro presenti.

La “prima” anestesia

Oggi, spalla imprescindibile del chirurgo in sala operatoria, l’anestesista può vedere in Teodorico de’Borgognoni (che però riprese la formula da un precedente medico) un suo antesignano. Ci portò la ricetta della famigerata spongia somnifera, oggi per fortuna sostituita da migliori e più sicuri anestetici. Eccola:

  • “Si prendono queste cose: mezza oncia di oppio tebaico, otto di succo della verde erba di Matala; tre di succo di verde giusquiamo; di succo di mandragola (tratto) dalle foglie spremute, mezza oncia trita; raccogli così per mezzo di una spugna in una unica pasta, e diligentemente lascia asciugare. Quando vorrai farne uso per mezzo della stessa spugna, per un’ora immergila in acqua calda e avvicinala alle narici, ed avvertirai il paziente che da sé stesso assorba quell’es­senza, per dormire a lungo; e quando lo vorrai risvegliare, applicherai alle sue narici un’altra spugna, imbevuta di aceto scaldato, e potrai così scacciare il sonno.”
La spongia somnifera, la migliore amica dell’anestesista trecentesco.
Miniatura dal Post Mundi Fabricam, codice francese del XIV secolo.

Con questo mix di oppio e alcaloidi, il paziente si addormentava (anche per sempre, se il dosaggio era errato) e il chirurgo poteva esercitare indisturbato la sua arte. Fino alla scoperta dell’etere dietilico, oppio e altre sostanze furono le sole usate in anestesia, mentre sulla classica scena da film del ferito che si scola il whisky e poi si fa operare, dai documenti di medici storici evinciamo che bere grosse quantità di alcolici prima di un’operazione fosse anche sconsigliato. Ovviamente, possiamo presumere che sarà pure capitato, nelle migliaia di operazioni compiute in setting non raccontati dalla letteratura, ma quest’ultima per lo più lo sconsigliava.

La situazione del chirurgo genovese

Sulla componente vulneraria, a Genova la presenza di medici specialisti in ferite (medici vulnerum) si riscontra fin dal XII secolo. In una repubblica marinara come quella, non stupisce che si facesse anche un uso nautico dei medici. Durante la navigazione si poteva essere feriti in molti modi: per abbordaggi (o ammutinamenti) ma anche per le normali manovre atte al governare una nave: schegge di legno, sfregando il cordame sulle mani, ustionandosi, ferendosi con utensili o cadendo dagli alberi stessi dell’imbarcazione. L’esigenza di un medico di bordo era quindi tutt’altro che secondaria, ma trovare qualcuno voglioso di imbarcarsi non era semplice.

Se la medicina togata e accademica aveva trovato una sua componente elitaristica a Genova, iniziamo a immaginare che questo avvenisse anche per i chirurghi dotti, che volevano distinguersi dai barbieri. Lo evinciamo, ad esempio, nel contratto per approntare una flotta di quaranta galee, stipulato nel 1337 tra i genovesi e Filippo VI di Valois, nell’eterna lotta contro gli inglesi. Notiamo come l’ammiraglio avrebbe avuto a disposizione sulla sua nave il “professorone”: un maestro chirurgo laureato (con l’ottimo stipendio di 10 fiorini al mese). Mentre su tutte le altre imbarcazioni sarebbero stati presenti “i chirurghi di serie B”: un barbiere e un barbierotto buonavoglia, incaricati della salute dei marinai. I buonavoglia erano persone che venivano pagate per eseguire i più umili compiti di bordo, tra cui remare (schiavi e carcerati iniziarono a essere forzati al remo solo verso la fine del medioevo genovese) e tale barbierotto proveniva proprio da quella ciurma di volenterosi o disperati.

Sull’attività dei barbieri di bordo genovesi non venivano di certo spese parole di stima, arrivando anche ad “accusarli” di causare morti per loro imperizia. La presenza di medici physici a bordo era invece più sporadica e dovuta all’assistenza dei naviganti senza necessità chirurgiche e per ispezionare le derrate alimentari, mentre ai chirurghi era lasciata tutta la parte della cura delle ferite, drenaggi di ascessi e fistole e ogni cosa per cui il medico avrebbe storto il naso. Nei documenti è noto che il barbiere di bordo avesse un suo “forziere” pieno di strumenti e ingredienti: sanguisughe, grassi animali, bende e olii vari.

Notare la faccia perplessa del paziente.
Fonte: Chirurgia Practica di Ruggero Da Salerno

Eppure, la penuria di sanitari a bordo si evince da “una supplica fatta dal Collegio dei Medici di Genova al Doge, nell’intento di ricordargli che l’obbligo di fornire per il servizio delle armate e delle galee uno o più medici era praticamente inattuabile se questi medici non ricevevano il dovuto compenso mensilmente e non a servizio compiuto”, anche perché, vista la perigliosità della navigazione medievale, non sempre si arrivava vivi in fondo al viaggio. Intuiamo, quindi, come la Compagna Communis Genuensis non nutrisse grande stima di questi professionisti.

I chirurghi tardomedievali genovesi, dunque, vivevano in quella tipica commistione coi barbieri. Tale confusione si ripercosse anche nella creazione degli ordini professionali: a Genova, chirurghi e barbieri finirono tutti nella stessa associazione professionale, la Ars chirurgicorum ac tonsorum, la cui chiesa era dedicata ai santi-medici Cosma e Damiano, ancora oggi uno dei luoghi di culto più graziosi del centro storico. Non è un caso, visto che una leggenda vedrebbe i due santi addirittura come i primi ad aver eseguito un trapianto di gamba…
Tale commistione durò fino al 1600, secolo in cui il barbiere venne sempre più estromesso dall’arte chirurgica e gli venne lasciata solo la parte igienica e la cura dei poveretti.

E la formazione? sappiamo che l’apprendista barbiere genovese doveva esercitarsi per sei anni (curiosamente, è la durata dell’odierno corso di laurea in medicina e chirurgia; al medico invece “bastavano” quattro anni): si iniziava a lavorare a quattordici anni fino circa ai vent’anni di età prima di potersi mettere in proprio, a distanza di “quindici case” dal maestro, onde evitare la concorrenza. La corporazione, naturalmente, replicava quella medica ed era richiesto un esame (e una quota in denaro) per entrarvi, obolo previsto anche per i forestieri che si fermassero ad esercitare nella Repubblica per più di due settimane. Il loro esercizio, poi, non era solo in bottega ma anche ospedaliero, talvolta senza compenso, giusto per farsi una base-pazienti da seguire poi privatamente.

Un esempio di chirurgo medievale ligure

Non possiamo chiudere il capitolo sui chirurghi medievali genovesi senza parlare di Giovanni da Vigo, anche detto “Giannettino il Genovese” dai contemporanei. Nato nella zona di Rapallo, dove esisteva una discreta comunità medica (abbiamo parlato anche delle due “medichesse” nello scorso capitolo) e buoni chirurghi litotomi come il suo probabile maestro Battista da Rapallo, Giovanni divenne chirurgo delle armate papali alla fine del 1400 e poi fu l’archiatra di papa Della Rovere alias Giulio II. Fu anche tra i primi a esercitare la chirurgia presso l’ospedale di Pammatone, oggi inglobato dal tribunale di Genova e sostituito dal Policlinico San Martino dai primi del ‘900.

Giovanni da Vigo e il suo baffetto irresistibile.

Utilizzò macchinari avanzati per l’epoca (e ne inventò uno per la trapanazione del cranio) e batteva spesso la valle del Bisagno in cerca di erbe medicamentose da usare nelle sue preparazioni.

Da Vigo, però, divenne famosissimo per il suo manuale di chirurgia che era un must dei tempi e tradotto in varie lingue: “De practica copiosa in arte chirurgica” dove trattò di decine di patologie, dai polipi nasali, alle fistole, ai “tumori infiammatori”, scrofola e quant’altro. Poi si occupò di due novità del tempo: la prima fu la grande infezione del rinascimento, il “mal franzese” (tra i liguri chiamato “delle tavelle”) oggi noto come Sifilide, di cui sicuramente lo stesso papa Della Rovere – chierico “allegro” e con figli – soffriva. Da Vigo descrisse con cura tutte le orrende fasi della malattia e trattava le lesioni con impiastri di mercurio, zolfo, olii e resine varie, nonché vino: tutte sostanze che hanno effettivamente potere antibatterico. Si nota, anche dalla sua tecnica di fumigazione delle ragadi anali, come il chirurgo rinascimentale non agitasse solo il coltello ma provvedesse anche alla terapia medica delle lesioni esterne.

Il nostro scrisse, nelle sue opere, una guida esplicita per i medici naviganti, e ciò non ci stupisce, essendo cittadino genovese.  Tra gli scritti troviamo una guida sugli ingredienti da portarsi appresso: assenzio, anice, canfora, aloe, ma anche farine di orzo o fave, e gli immancabili minerali, allume, ossido di rame e il litargirio (piombo), poi grassi vari e polvere di mummia!
Sì, proprio quella. La polvere di mummia era un ingrediente prezioso che si riteneva potesse far bene ai tessuti viventi, dal momento che quelli delle mummie mica si decomponevano! Ciò grazie ad alcuni prodotti neri e bituminosi poco facili da reperire e che qualcuno consigliava di estrarre dalle mummie egizie, che venivano tritate, macerate, distillate… e poi bevute o spalmate sulla parte da “curare”. Data la difficoltà nel riconoscere i prodotti autentici, esistevano anche i falsificatori di mummie che usavano raccapriccianti metodi per procurarsi il prezioso “oro nero”, come usare cadaveri freschi lasciati a imputridire dopo “iniezioni di asfalto”.

Tornando al Da Vigo, la raccomandazione per il ferito a bordo era di usare semplici bende di lino senza impiastri vari ma un olio rigenerante “ad incarnandi” che era di consuetudine per l’epoca. Purtroppo, Da Vigo prese un grosso granchio sulle ferite da arma da fuoco, reputando velenosa la polvere da sparo e quindi spingendo a cauterizzare gioiosamente ogni ferita, producendo danni ben peggiori. A “sbugiardarlo” fu un giovanissimo barbiere francese, Ambroise Paré, che trovatosi ad aver finito l’olio per cauterizzare i feriti, si limitò a bendare le loro lesioni dopo un semplice impacco e scoprì che i feriti cauterizzati, il giorno dopo, erano tutti in preda a febbre e dolore mentre quelli bendati no. Da allora giurò che “mai più avrebbe crudelmente bruciato dei poveretti feriti da archibugio”. Ma questa è un’altra storia.

Arrivederci alle prossime puntate, dove vedremo cenni di terapie prescritte dai medici liguri e gli ospedali medievali sul territorio genovese!

Bibliografia essenziale

  • Balletto, L., (1986) “Medici e Farmaci, scongiuri e incantesimi, dieta e gastronomia nel medioevo genovese”, Collana storica di fonti e studi
  • Cosmacini, G., (2003) “La vita nelle mani: Storia della chirurgia”, Laterza
  • Cosmacini, G., (2011) “L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi”, Laterza
  • Palmero, G., (2007) Ars medica e terapeutica alla fine del Medioevo. Il caso genovese”, Nuova rivista storica
  • Pesce, G., (1951) “I medici di bordo ai tempi di Cristoforo Colombo”, Civico Istituto Colombiano
  • Pescetto, G. B., (1846) “Biografia medica ligure del dott. G. B. Pescetto”, Tipografia del R. I. Sordo-muti
  • Dr.Cabanes (1918) “Chirurgiens et Blessés à travers l’histoire. Des origines à la Croix-Rouge.”, Albin Michel

Questo articolo è rilasciato con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale 4.0 Internazionale (CC BY-NC 4.0)

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Medici e Chirurghi nella Genova Medievale – Prima Parte

Con questa serie di articoli, parleremo di com’era la vita del medico genovese nel medioevo, intendendo per genovese il “cittadino della Repubblica di Genova”, qualsiasi fosse il borgo d’origine.

Prima di addentrarci, dobbiamo fare una doverosa premessa sull’attività dei sanitari nel medioevo. Mi scuseranno gli studiosi se userò un tono talvolta goliardico.

Lavorare come medico nell’età di mezzo

Quando si evoca l’immagine del medico medievale, subito si pensa a una lunga tunica nera, la maschera bianca con il becco, gli occhialoni e un cappello a larghe falde, quasi una maschera per spaventare i bambini.

Ogni volta che un medico medievale viene rappresentato in tal guisa, uno storico della medicina ha una fitta al petto.

Tale immagine erronea (questo abbigliamento si adotterà solo dalla peste del 1600) è uno dei tanti tentativi di chi ha voluto bollare il medioevo come soltanto un’epoca barbara. Eppure, sul tema sanitario dobbiamo parzialmente confermare la barbarie.

Per un paziente medievale c’era ben poco da scherzare con le malattie, ma ancor di più a mettersi sotto le grinfie di un “medico”, poiché la terapia medica medievale è riassumibile con “me la provo a senso e citando i classici: tanto si è sempre fatto così”.
Lo stesso Pietro Ispano, che fu prima medico e poi Papa Giovanni XXI, stilò un elenco di tutte le figure che praticavano la medicina, con la stessa simpatia con cui un anziano primario in pensione parla degli ex-colleghi:

“mulieres ignorantes, obstetrices, rustici, barbitonsores et barberii, aromatari, empirici, medici debiles et vulgares, medici illitterati et vagipulantes medici, chirurghi rurales, insidiatores, falsarii, alchemistae, Judaei et conversi saraceni.”

Bastano pochi termini chiave di questo estratto per capire come il mondo sanitario medievale fosse costellato da ciarlatani, praticoni ed empirici. La medicina era infarcita di riferimenti all’astrologia – oggi ampiamente declassata a folklore ma allora in grande considerazione – empirismo e una buona dose di “ricette segrete che il medico inventava di aver appreso nei modi più fantasiosi, qualcosa di poco credibile tipo “ho trovato un libro in giardino attirato dal tubare di una colomba che recava nel becco un ramo d’olivo”, “me l’ha dettata in sogno San Michele” o “l’ho sentita da un medico veneziano in confessionale ed egli giura di aver guarito torme di gente con essa”. Non è un caso che, dai documenti, si evinca un certo scetticismo generale verso la professione sanitaria.

A dominare l’atto medico era la teoria “umorale” ippocratica, di cui parleremo approfonditamente in un successivo articolo: ribilanciare un ipotetico squilibrio dei fluidi corporei, considerati la causa di ogni malattia che non fosse un colpo di spada o una gamba rotta.

Convocato il medico per guarire un malanno, questi iniziava con una prima ispezione del paziente per capirne tanto i sintomi quanto la sua capacità di pagare. Deciso se agire o se lasciare il malcapitato “nelle mani di Dio” per evitare di aggravare la situazione (o se si riteneva di non essere pagati o peggio essere perseguiti), si esercitava la propria arte seguendo la medicina degli antichi maestri greco-romani, Ippocrate e Galeno per lo più, considerati sacri e innegabili: se oggi si parla di Evidence-based Medicine, allora si sarebbe chiamata Eminence-based Medicine. Coloro che tentavano di opporsi ai maestri venivano spesso additati come blasfemi e attaccati o isolati dalla comunità scientifica. Tali maestri erano tutt’altro che affidabili per alcune terapie, eppure continuarono a essere seguiti fino al XIX secolo.

Tornando all’attività medica, se far diagnosi non era sempre difficile, la terapia rappresentava il momento più casuale e mutevole. Ecco che il malato veniva spesso sottoposto a terapie dannose, abominevoli, sperimentali e pericolose o gli venivano prescritte diete astruse che non facevano altro che indebolirlo.

Ma come si diventava operatori sanitari nel medioevo? Inizialmente non c’era bisogno di una laurea, tanto che leggiamo spesso di privati cittadini che dispensavano consigli e terapie: mi viene da rabbrividire pensando a cosa sarebbe avvenuto con la presenza di internet e i social network. Solo nel basso/tardo medioevo si assistette a una regolamentazione di tale attività. A complicare il quadro, esistevano medici, physici, pratici, barbieri, barbitonsori, cerusici e chirurghi, speziali e quant’altro, di formazione religiosa o laica, che esercitavano avendo studiato in atenei o semplicemente apprendendo l’arte “in bottega”, senza che vi fossero chiare specializzazioni né si capisse il limite delle loro conoscenze. Vi erano naturalmente imbroglioni, idioti e ciarlatani: il termine nasce proprio in ambito sanitario da “ciarlare” + “Cerretano”, borgo umbro da cui per convenzione provenivano gli ambulanti; costoro spesso spillavano soldi a coloro che non potevano permettersi prestazioni di alta qualità.

Un medico mentre osserva in un contenitore l’urina di un malato.  Recueil des traités de médecine (12501260)

Nonostante l’empirismo dilagante, esistevano anche prestigiose università come Padova, Bologna, Salerno, Montpellier o Parigi, che avrebbero sfornato la figura del physicus togatus, contrapposto al “praticus”, il praticone da bottega che però era la figura sanitaria più diffusa, soprattutto per la chirurgia (come diremo nel prossimo articolo).

Dove lavoravano i medici? In bottega, erranti, a corte o negli ospedali. Non di rado, i medici si trasferivano in posti nuovi per esigenze di lavoro, forse anche per l’imprecisione della loro arte o l’aver sterminato metà della loro base-pazienti. Solo quelli di bella fama restavano sempre nello stesso luogo, magari al servizio di facoltosi nobili e prelati.

Il basso medioevo e i medici genovesi

Al di fuori dei centri ospedalieri (a Genova praticamente tutti in mano ecclesiastica), il medico genovese non sembrava proprio godere della stima odierna, come ci ricorda Laura Balletto (v. bibliografia). Attraverso l’analisi dei documenti storici innanzitutto notiamo che, prima dell’atto sanitario, il medico genovese stipulava un contratto (verbale o scritto) con il paziente: il dottore (magister) provvedeva a fornire la prestazione sanitaria e si procurava o pagava di tasca propria i farmaci per il paziente e solo in caso di guarigione/sollievo dei sintomi veniva remunerato; a volte era proprio specificato da contratto cosa si intendesse per guarigione (es: “essere nuovamente capaci di stendere il braccio e portarlo alla bocca, stringendo il pugno”). I contratti potevano prevedere anche una scadenza per cui si pagava solo se la guarigione fosse avvenuta entro una tal data, oppure il salario avrebbe potuto essere posticipato o rateizzato. Ancora, in caso di malanni multipli, si pagava solo quello che veniva sanato, con il dovuto giuramento da parte del paziente di non mentire e non simulare, ad esempio, di continuare a provar dolore per non pagare. Oppure era possibile “assicurare” il pagamento con un rimborso da parte del medico se la malattia fosse tornata entro un certo tempo dalla prima guarigione.

Si evince, quindi, l’incredibile aleatorietà del mestiere medico nella Genova medievale che, andando a braccetto con la rozza arte sanitaria, non può che farci propendere per un mestiere rischioso e poco remunerativo, dove spesso il paziente insoddisfatto poteva non pagare. Difficile capire l’entità degli onorari, ma il sospetto è che a Genova fossero ben miseri: un medico lo troviamo a pagare per evitare di vogare sulle galee (!!!), un altro è stipendiato per tenere calde le vasche dei bagni pubblici, un terzo medico in una “colonia” genovese viene pagato meno di un balestriere della guarnigione: non proprio cose per cui la mamma sarebbe stata fiera. L’altro aspetto che ci fa propendere per la scarsa ricchezza dei sanitari liguri è che alcuni esercitavano due mestieri insieme, ad esempio il medico e il notaio o il medico e mercante, cosa ben nota anche in altre città, tanto da ipotizzare l’origine del cognome “Medici” (che erano banchieri) proprio da questo dualismo non strettamente legato alla professione sanitaria.

Diverso il destino di coloro che diventavano medici di fiducia delle famiglie nobili o dei pontefici: tali sanitari contavano su uno stipendio fisso (che imponeva il curare gratis i familiari della casata) e che poteva essere ampiamente arrotondato dalle altre attività private (oggi diremmo intramoenia).

Il tardo medioevo e le fondamenta dell’Ordine dei Medici genovese

Abbiamo affermato che un medico che avesse voluto esercitare nel medioevo avrebbe potuto scegliere la strada del praticone empirico da bottega o provare a studiare ed ottenere una laurea. Nell’epoca rinascimentale, gli onorari dei medici sembrano decisamente crescere fornendo uno sprone in più ad intraprendere quest’arte, ma il numero dei medici rimane comunque troppo basso per coprire la popolazione. Si configura sempre di più, dunque, una medicina di base per gli indigenti, costretti a mettersi nelle mani di ciarlatani o della pietà religiosa, e quella dei ricchi, come avviene ancora oggi in nazioni con sistemi sanitari privati.

La sfiducia in cui incorsero i medici dopo la devastante pestilenza “Decameronica” del ‘300, in cui la sanità si dimostrò totalmente impotente (e senza maschere a becco), portò all’ascesa di altre figure professionali meno dotte o ad affidarsi sempre di più a metodi caserecci (come il decotto di cavolo in voga tra i mercenari tedeschi, come panacea di tutti i mali). In questo i medici genovesi, invece di aprirsi a nuove teorie e collaborazioni, fecero quello che ci si aspetterebbe oggi dai mugugnoni abitanti della riviera Ligure: si chiusero a riccio.

Consulti mediciMiniatura dal “Circa Instans” di Matteo Plateario , Francia, inizio XIV sec.

Partiamo dalla triste notizia che non era possibile “studiare medicina” nel medioevo a Genova. Nel capoluogo ligure una vera e propria facoltà nacque solo secoli più tardi presso l’ospedale di Pammatone. Insomma, bisognava “fare l’Erasmus” e andare a studiare fuori, ad esempio a Padova, per poi tornare. Esisteva però dal tardo ‘300 una sorta di Ordine dei Medici – il Collegium Medicorum – che ammetteva, previo esame su Ippocrate e Galeno, membri che avessero studiato almeno 4 anni e fossero genovesi, svantaggiando in vari modi i candidati forestieri (bello vedere come le cose non siano cambiate molto in settecento anni).

Tale Collegium, che a fine ‘400 contava una ventina di membri, secondo un saggio di G. Palmero sembrava più che altro interessato a formare una corporazione e mantenere i suoi privilegi che formare i medici liguri come un vero ateneo. Ed era prono a impedire che chiunque non fosse associato potesse esercitare il mestiere sanitario in città, spesso in contrasto con le disposizioni comunali. Nel 1481 fu emanato uno statuto deontologico atto a limitare l’attività del personale sanitario, ad esempio imponendo di non poter cambiare terapia al paziente senza prima averla concordata con il primo prescrittore o a non lavorare mai insieme a medici forestieri. I chirurghi, poi, non potevano visitare senza essere accompagnati da un medico del collegio e si chiedeva al comune di Genova di fornire cadaveri di indigenti condannati a morte per eseguire autopsie ed esercitazioni anatomiche, con buona pace di chi sostenesse che nel medioevo fossero proibite. A fine ‘500, i criteri di appartenenza al Collegio si fecero estremamente severi, andando persino a richiedere prove sulla residenza in Genova per lungo tempo dei genitori dei suoi membri, fino a divenire una sede di consorteria familiare quasi nobiliare.

Non solo maschi cristiani

In generale, il governo ligure di fine ‘400 iniziò a non interessarsi delle volontà accentratici del Collegium e favorì comunque l’esercizio della professione a medici forestieri di una certa validità.

In questi anni vengono citate almeno due dottoresse donne: la “divina di Zoagli”, Teodora Chichizola e un’anonima dottoressa rapallina soprannominata addirittura “la profetessa”. Nonostante i titoli ricordino cartomanti da televendita anni ‘90, sono citate perché curarono parenti di dogi della Repubblica, evidentemente con perizia dato che a Teodora fu conferita l’esenzione dalle tasse per sé e i discendenti. I titoli altisonanti delle due dottoresse – tutt’altro che casi isolati nel medioevo, si vedano le “mulieres salernitanae” – fanno pensare a quanto la medicina fosse ancora considerata un’arte divinatoria, quasi stregonesca. In un’epoca dove la maggioranza delle donne sanitarie era comunque “specializzata” in ginecologia e ostetricia, fa comunque piacere tracciare l’immagine di un medioevo meno nero e misogino di quanto la propaganda post-illuministica ci abbia sempre parlato. Le ostetriche, poi, dominavano la scena del parto (e le levatrici il puerperio) senza intrusioni maschili, ed erano anche autorizzate alla (a quel tempo) terribile procedura del taglio cesareo, di cui recentemente abbiamo avuto una rappresentazione fin troppo truculenta nella serie HBO House of the Dragon.

E i medici non cristiani? I genovesi ebbero posizioni ambigue, da un lato associandosi ai sentimenti antisemitici di fine ‘400, dall’altro apprezzando le arti dei medici perlomeno ebrei, tanto da garantire loro salvacondotti e privilegi direttamente dal mondo politico. I testi dei medici arabi come Avicenna e Averroè, che Dante “salva” nella sua Commedia mettendoli nel Limbo, vennero poi di gran voga dopo le traduzioni dei loro testi in latino. Si trattava comunque di una medicina basata molto su Ippocrate (scambi tra il mondo greco e quello arabo erano avvenuti per secoli), contaminata dalla scuola di Baghdad e da quella andalusa.

In conclusione, il medico medievale genovese si muoveva in una dimensione di precarietà economica e incertezza, laddove non fosse divenuto membro del suo “club esclusivo”. Vedremo nei prossimi articoli chi invece esercitava la chirurgia, quali terapie erano prescritte e gli ospedali medievali a Genova.

Si ringrazia il sito “Genova Medievale” per aver pubblicato questo stesso articolo del medesimo autore.

Fonti testo:

  • Cosmacini, G., (2011) “L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi”, Laterza.
  • Balletto, L., (1986) “Medici e Farmaci, scongiuri e incantesimi, dieta e gastronomia nel medioevo genovese”, Collana storica di fonti e studi.
  • Palmero, G., (2007) Ars medica e terapeutica alla fine del Medioevo. Il caso genovese”, Nuova rivista storica.
  • Pesce, G., (1951) “I medici di bordo ai tempi di Cristoforo Colombo” Civico Istituto Colombiano.

Fonti immagini:

  • Miniatura europea di al-Rāzī nel libro tradotto da Gerardo da Cremona Recueil des traités de médecine (12501260) Reproduction in “Inventions et découvertes au Moyen-Âge”, Samuel Sadaune
  • Miniatura dal “Circa Instans” di Matteo Plateario , Francia, inizio XIV sec. – Londra, British Library

Quest’articolo è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale 4.0 Internazionale.

La guerra delle serie: Rhaenyra vs Galadriel

Gli Anelli del Potere e House of the Dragon sono appena terminate. Quale mi è piaciuta di più?
L’elfa dalle tendenze orcomicide o l’incestuosa Targaryen?

Certo, è un bell’anno per chi è appassionato di fantasy: le tre grandi potenze Netflix, Amazon Prime Video e HBO/Sky hanno sellato i loro cavalli di battaglia The Witcher, Gli Anelli del Potere (AdP) e House of the Dragon (HotD), in attesa che anche Disney + entri nel conflitto con Willow. Ma se le avventure di Geralt sono già roba natalizia dell’anno scorso, la contemporaneità dei prodotti Prime e HBO/Sky ha portato i fan a vedere insieme le due serie ed esprimere pareri.

È corretto paragonare gli AdP a HotD?

Per me sì, date le posizioni di partenza. Sebbene gli Anelli e Dragon abbiano target completamente diversi, si rivolgono ambedue al pubblico amante del fantastico, ma con una maturità diversa. Inoltre, partono da adattamenti (noiosetti, NdR) di due testi che non sono romanzi ma “libri di storia”.
HotD deriva da “Fuoco e Sangue” (oppure da “La Principessa e la Regina”, se preferite), cronaca storica ambientata nel mondo fantastico di George RR Martin, mentre gli AdP sono tratti dalle appendici storiche in fondo a Il Signore degli Anelli di Tolkien (NB: non è derivata dal Silmarillion, poiché Amazon non ne possiede i diritti).
Dunque gli showrunner non hanno potuto contare su molti dialoghi già scritti ma solo su una descrizione sommaria degli eventi fatta dagli autori. Con l’eccezione che Martin è ancora vivo e ha collaborato alla serie.

Vediamo insieme il mio parere, ma attenti: hic sunt spoilerones! (spoiler warning Stagione 1 de Gli Anelli del Potere e House of the Dragon, da qui in poi)

Gli Anelli del Potere: all in col budget! E la storia?

Lo dico subito: la produzione de gli Anelli del Potere è imponente. Lessi i libri di Tolkien da ragazzo dopo aver visto il delirante cartone di Ralph Bakshi, ben prima dei tre primi capolavori di Peter Jackson (no, trilogia de Lo Hobbit: tu no!!!).
La caratteristica tolkeniana, lasciata quasi intatta da Jackson, era una grande epicità dei personaggi, dei dialoghi e degli ambienti. Gli AdP manca molto di questo aspetto, consegnandoci, sì, un incredibile paesaggio ad alto budget in un misto di CGI e landscape neozelandese, ma ribassando l’aspetto epico/aulico solo a qualche desueto dialogo tra gli elfi, recitato col verbo in fondo alla frase (Yoda?), inframezzato da momenti troppo moderni (v. Isildur, in seguito).

Cast multietnico ma chissenefrega, purché la trama e la recitazione siano valide!

La polemica zero della serie (hobbit, nani ed elfi di colore? Sacrhilegiohh!!!11!!!) viene presto sedata dalla ottima performance attoriale di alcuni attori di colore, dai personaggi anche ben scritti (es: Sadoc il pelopiede tour operator e Arondir l’elfo poliziotto). Ma questo conta davvero poco. Nessuno si aspettava davvero un’aderenza a romanzi tolkeniani che nemmeno esistono (essendo solo quintali di appunti messi insieme dal figlio Cristopher), ma quantomeno mantenere la linea di Jackson (a parte Gimli macchietta, quello no). Gli AdP, più che una sterzata, fa una vera inversione a U, difficile da digerire. Ecco degli esempi.

Isildur e suo papà, che non è andato a vederlo alla partita di baseball

Isildur viene beccato da Elendil a voler “navigare verso Ovest”

L’arco narrativo dei futuri re di Gondor è la parte forse peggiore dell’intera serie, liquidati come fossero due tizi che vivono in una bella villetta a schiera del New Jersey, col padre che chiama “campione” il figlio. Si sono pure inventati una sorella geometra comunale e hanno completamente estromesso il fratello Anarion (wtf?), lasciando il rapporto tra Elendil e il figlio goffo, anacronistico (siamo pur sempre in un mondo medievaleggiante) e borghese. Niente a che vedere con Denethor e Faramir, pur con le diversità delle vicende, o anche di Theoden ed Eowyn. Isildur fa bisboccia coi suoi amichetti della scuola cadetti, facendo pasticci come fosse dentro American Pie. I numenoreani meritavano di meglio.

Stessa cosa per Theo con la madre farmacista, e lasciamo perdere che sia un locandiere a diventare la chiave per la creazione di Mordor. Seriamente, John Ronald, se stai sfondando la cassa stavolta ti capisco.

Galadriel: l’elfa pazza che sogna lo sterminio della razza

La vera cattiva della serie è lei!!!
meme da: https://9gag.com/gag/aME2gPM

Lo ammetto: quando Galadriel confessa all’elfo rinnegato Adar che il suo più grande desiderio è massacrare fino all’ultimo orco, lei coi capelli biondi e la pelle d’alabastro, l’ho vista bene in piedi su una sedia in una birreria di Monaco negli anni ’20 o su un manifesto di propaganda, ad arringare la folla scontenta dopo la sconfitta della Prima Guerra Mondiale. La Galadrielwaffe, però, non regge, schiacciata dal peso di una sceneggiatura pro girl-power (che non sarebbe un male, perché in House of the Dragon funziona!) e delle stupidità che la futura regina di Lorien non dovrebbe compiere (“ma sì: mi butto in mare che questa è la rotta di Costa Crociere, prima o poi qualcuno mi raccatta“). Ecco che diventa un personaggio odioso, pomposo e poco appealing, che non ne azzecca quasi una.

Ma qualcosa di buono?

Gli elfi di Rings of Power e i loro invidiabili capelli

Certo: tutta la parte incentrata sui nani è ben svolta, meno azzeccati i ciuffoni anni ’80 di Elrond e Celebrimbor (ma due parrucche no???) ma i loro personaggi sono comunque interessanti. Non da disdegnare il plot twist sull’identità di Sauron alla fine, bella la resa degli orchi e anche la parte dei Teletubbies, ehm ehm…. i pelopiedi, che dona un po’ di ironia scanzonata al tutto (carina la parte in cui elencano i morti, che sembra l’esito di una partita del vecchissimo videogioco Lemmings). E pure l’anacronistica discesa dal cielo di Gandalf (dai che è lui, su) è ben gestita.

In sintesi, gli AdP è una serie modestamente sceneggiata, con la sufficienza non raggiunta o giusto risicata, giusto per l’alto budget e per pochi momenti epici come la nascita di Mordor (vabbeh dai è un mondo fantasy, fanc*lo la vulcanologia!).

House of the Dragon (HotD): sgozza che ti passa

Gli uffici della HBO dove vengono sceneggiati il Trono di Spade e House of the Dragon

In effetti non mi pare di aver visto nessuno sgozzamento nelle 10 puntate, ma rende l’idea di un qualcosa che, sull’onda di Game of Thrones (GoT), ha sempre caratterizzato il mondo di George RR Martin: la violenza e lo shock. Il compiacimento di narrare tirando pugni nello stomaco al pubblico è la caratteristica primaria dei prodotti ambientati a Westeros, zero buonismi. Ecco che ci troviamo a dire “fammene vedere ancora, però mi fa anche un po’ ribrezzo” ogni scena di parto cesareo, sbudellamento, incenerimento ecc: HotD ha momenti horror che però ti fanno guardare con un occhio chiuso e uno aperto. Ed è la sua forza, dove gli AdP non osa mai. Come la costante sensazione che nessun personaggio sia al sicuro, neanche quelli principali (vedi Ned Stark). Sorry Amazon, non ci basta un Sadoc pugnalato per recuperare un po’ di ansia verso i personaggi.

Donne, du du du, in cerca di draghi

Rhaenys la tocca piano
meme da https://9gag.com/gag/aNwK2e4

La serie di Miguel Shapo… Sahpoch… insomma lui che già fece scalpore nella prima serie, è un concentrato di temi moderni declinati in salsa antica. In primis, lo svilente ruolo della donna che, già dal primo episodio, viene relegato a quello di giumenta; poi lo strapotere dell’aristocrazia contrapposto al popolino = carne da drago. Fin qui potrebbe essere anche neorealismo sovietico, ma quello che rende HotD una super-serie, non è la sigla scopiazzata (malissimo) da GoT, ma come si possa realizzare “Beautiful, ma coi draghi” e renderlo interessante e aperto sia al pubblico maschile che femminile. Qui, al posto della bomba atomica, il fulcro del potere è cavalcare un drago e incenerire gli avversari. E le donne possono farlo. E lo fanno. Questo girl power è assolutamente più delineato di quello di Galadriel, che non fa altro che piagnucolare ogni corte dove viene ospitata, manco fosse Dante, per andare a cacciare orchi.

L’irresistibile leggerezza dell’incesto medievale

I Targaryen dopo 3 generazioni di matrimoni tra consanguinei

Se Martin sia nato in qualche sperduto villaggio statunitense dove si copula allegramente tra cugini (o peggio), non si sa. Ma questa sua ossessione per l’incesto e le malattie genetiche ad esso correlate deve un po’ cessare. Questa parte è la meno interessante di HotD ma sottende comunque alle guerre familiari tra casate, prese pari pari dal medioevo anche senza andare a scomodare Lancaster e York (chi ha detto Lannister e Stark?)… che pure in Liguria, Doria, Spinola, Fieschi e Grimaldi se le sono date di santa ragione. Questo aspetto, l’ispirarsi pesantemente alla storia medievale europea, è l’altra forza di HotD che si tiene sul fantastico giusto coi draghi, ma resta coi piedi saldamente piantati nel patrimonio storico. Tanto che alcuni spettatori meno letterati pensavano GoT fosse una storia vera ambientata nell’Inghilterra del 1200…

Quella camminata poi, di re Viserys morente verso il trono, la ricorderemo tutti. Come le risate totalmente fuori contesto di Daemon.

Ma ha anche dei difetti

The "House of the Dragon" foot fetish scene has people shocked...
Quando “the Hand of the King” ti interessa meno di “the Feet of the Queen

La lentezza di alcune puntate tutte intrigo di corte, il ridicolo feticismo per i piedi di Larys Strong (come demolire un personaggio fighissimo), l’assenza completa di qualsiasi “personaggio “buono” per cui parteggiare (non se ne salva uno), i nomi tutti uguali (“oh ciao Bhela, Rhela, Erehla, Erebhela, Rhenis, Rhenir, Irheni, Erehnis, Baegon, Vaegon, Erehva, Viserya, Resyva, … ecchecacchio”) Ci) sono difetti, certo. Ma la perfezione nelle serie non c’è, vedi le ultime di Star Wars…

In soldons:

House of the Dragon, per me, è da 7 e vince a mani basse contro Gli Anelli del Potere. Che mi fa piacere vi sia piaciuta e rispetto la vostra opinione, ma a me no. Sono certo, però, che saprà imparare dagli errori e darci una seconda stagione migliore.

Ma per riassumere tutto, ecco Cartoni Morti che ci regala la migliore comparazione tra le due bionde. Buona visione!

È scomparso Gian Filippo Pizzo

La fine del 2021, anno orribile, ci ha portato la triste notizia della morte di Gian Filippo Pizzo, dopo una lunga malattia.

Autore di fantascienza e saggistica, come curatore di antologie ha ricevuto importanti riconoscimenti quali il Premio Italia.

Sono riconoscente a lui in quanto è stata la prima persona che ha ritenuto i miei racconti validi e degni di pubblicazione, avvenuta quasi esclusivamente sotto la sua supervisione, come avrete visto nella sezione bibliografia. In uno dei nostri ultimi contatti, mi disse che non era triste e che la sua vita l’aveva vissuta.

Grazie, Gian Filippo, per aver creduto in me. Sit tibi terra levis.

The Last Duel – un flop meritato o il secondo Blade Runner di Scott?

Da pochi giorni è disponibile su Disney+ il film di Ridley ScottThe Last Duel“, storia vera dell’ultimo “duello di Dio” avvenuto in Francia tra due cavalieri di fine ‘300. Il film, costato almeno 150 milioni di dollari, non ne ha incassati nemmeno la metà e ora approda sulla piattaforma di streaming di mamma Disney, che lo ha prodotto.

Ogni appassionato di medioevo che si rispetti, come il sottoscritto, si è naturalmente cimentato nella visione. Ma questo film è davvero così brutto o meritava di più?

Ridley Scott, tra alti e bassi

Il famoso regista inglese non è nuovo a débâcle del genere. Quello che forse è il suo film più acclamato dalla critica – Blade Runner – fu un fiasco al botteghino per diventare poi il film cult cyberpunk per eccellenza. Lo stesso Scott, che già si era cimentato con il medioevo nel discreto Le Crociate – Kingdom of Heaven, per poi franare di nuovo nel dimenticatoio in Robin Hood con Russel Crowe, non era mai riuscito a bissare il successo del suo altro grande film “storico”: Il Gladiatore, che a dispetto delle numerose incongruenze, aveva incantato il pubblico delle generazioni X, Y e pure i baby boomer, via. Scott ci ha sempre abituati al tutto o nulla: o film indimenticabili come Alien, o pellicole da cancellare dagli archivi come Exodus. In quale categoria collocare The Last Duel?

La trama in breve (senza spoiler)

Nella Francia sotto il re Carlo VI, i nobili minori Jean de Carrouges (Matt Damon) e l’amico-nemico Jacques Le Gris (Adam Driver), si contendono castelli e la virtù di una donna (Jodie Comer), moglie del primo. Favorito dal conte Pierre (Ben Affleck), Le Gris cercherà in tutti i modi di sfruttare la sua abilità per prevalere su Carrouges, fino a essere da lui sfidato a duello per una grave accusa: un duello all’ultimo sangue dove Dio avrebbe deciso il colpevole.

Adam Driver e Matt Damon, pronti a suonarsele di santa ragione

Il cupo ma tutto sommato accurato medioevo francese

Nonostante la discutibile palette di colori del film rispetti il solito cliché sul medioevo buio, fangoso e freddo, The Last Duel riesce immediatamente a fare immergere il pubblico nella Francia medievale, con il suo sistema feudale tutt’altro che statico (uno dei protagonisti, infatti, cita in tribunale il suo signore), le sue stranezze (gli ordini minori clericali, i medici “uroscopi”, la riscossione degli affitti) e il ruolo difficile delle nobildonne, costrette a matrimoni dinastici con mariti testosteronici e interessati solo a guerre e prestigio. In questo, Scott ha fatto un ottimo lavoro rendendo subito credibile tutto l’apparato, pur concedendosi grosse imprecisioni – di cui una (il mezzo-elmo che vedrete alla fine) difficilmente scusabile. Tuttavia, il duello finale e le circostanze che portarono ad esso sono molto accurate e traslate ottimamente nel film.
Il cast è ben amalgamato e i dialoghi sono sempre funzionali alla trama, con un discreto numero di comparse e costumi convincenti (se eccettuiamo il solito errore di mettere il tartan agli scozzesi, in cui cadde miseramente anche Mel Gibson).
Tutt’altro che secondaria l’attenzione al ruolo della donna, laddove Jodie Comer diventa un’eroina dei suoi tempi per aver detto la verità, nonostante a difenderla sia un marito duro e anaffettivo, tormentato dal suo egocentrismo.

Ma allora cosa non funziona?

Nonostante Scott abbia dato la colpa del flop ai millennials che “non fanno altro che guardare il cellulare”, il film ha un grosso problema di dinamismo. Difatti, è raccontato tre volte dai punti di vista dei tre protagonisti, con scene che vengono triplicate con minime e non sempre apprezzabili differenze l’una dall’altra, spingendo la pellicola a 2 ore e 40 di ripetitività e lentezza. Avrebbe giovato fare due unici archi narrativi: quello dei due scudieri con le loro bassezze e quello della povera Marguerite, la protagonista femminile, tagliando 40 minuti buoni di ripetizioni e mantenendo un montaggio più veloce e interessante.

Nel complesso, The Last Duel è un film che non può che essere visto dagli appassionati di storia, mentre l’utente medio difficilmente riuscirà a sopportare la sua lentezza didascalica.

Nuovo racconto pubblicato in antologia: “Bonsai Kid”

Cari lettori, è passato tanto tempo dall’ultimo aggiornamento di questo sito e anche dall’ultimo racconto pubblicato. Con grande piacere e grazie alla cura di Gian Filippo Pizzo e dell’editore Tabula Fati, vi segnalo questa nuova antologia, Metamorfosi della Mente, che contiene anche il mio racconto “Bonsai Kid“.

Metamorfosi della Mente, pubblicato da Tabula Fati e a cura di G.F. Pizzo

“Bonsai Kid narra di una giovanissima hacker capace di fare quello che vuole, con i suoi dispositivi tecnologici. Anche compiere una crudele vendetta che la trascinerà verso un enorme dilemma.

Sono felice di avere scritto questo racconto in un momento in cui il genere Cyberpunk stava tornando un po’ di moda, forse anche per l’hype generato dal videogioco omonimo.

Il racconto si inserisce nell’antologia di Pizzo basata sulla “personalità virtuale”, lasciando il concetto alla libera interpretazione degli autori. La mia idea è stata di una personalità virtuale declinata in diversi modi.

Sulla rete siamo tutti “altre persone”, un po’ come accade quando ci mettiamo al volante: talvolta esce la natura peggiore di noi, fatta di aggressività e impazienza. Allo stesso modo, la rete amplifica le nostre pulsioni e le libera, come vediamo ogni giorno sui social network, ridotto ormai a un denso “opinionificio non richiesto”. In questo senso, viviamo uno sdoppiamento della personalità sul web (a volte anche in entità triple o quadruple…) dove ci sentiamo liberi di compiere scelte che non faremmo mai nella vita reale.

In secondo luogo, il mondo virtuale ha sdoganato un nuovo modo di imporsi come personalità, intesa in senso di “fama”: influencer, youtuber, streamer, divenuti famosi solo grazie ai loro follower che sostengono economicamente le loro vite. Un fenomeno ormai consolidato al di fuori dei vecchi canali del cinema o televisione.

Inoltre, Bonsai Kid è stato scritto in un momento in cui tutti noi eravamo forzatamente chiusi in casa per la pandemia da Coronavirus, e ci siamo inevitabilmente rifugiati in una vita virtuale, in luogo di quella reale.

Spero che il racconto vi piaccia! Potete acquistare l’antologia, che contiene molti altri racconti interessanti e di autori ben più famosi, andando sul sito di Tabula Fati qui.

Un enorme ed ennesimo grazie a Gian Filippo Pizzo, con cui collaboro ormai da anni con grande soddisfazione.

A presto!

LUCA (recensione): la Pixar porta un pizzico di Myiazaki e Dolce Vita in Liguria

“Luca” – in streaming su Disney +

La mia recensione di Luca presenterà spoiler, per cui vi raccomando di leggerla solo dopo che avrete visto il film.

Attenzione liguri e amanti della riviera! Su Disney + è finalmente presente “Luca” il nuovo lungometraggio di animazione firmato dal regista genovese Enrico Casarosa. Ambientato in un paesino ipotetico delle Cinque Terre, narra delle avventure del mostro marino Luca e del suo incontro con Alberto, che lo smuoverà a scoprire il mondo.

Quel ramo del mar Ligure

Dopo la visione di Luca, ci sono due emozioni a seconda di dove siate nati o vissuti. I liguri lo adoreranno senza se o ma, tolte però le esclamazioni grottesche di Giulia tipo “santa mozzarella!” che non solo sono assolutamente a-liguri, ma anche a-italiche, e rappresentano quel cliché dell’italiano medio pizza e mandolino com’è visto dagli americani.

I non liguri sicuramente apprezzeranno il film ma non lo riterranno memorabile perché diciamocelo: la trama di Luca è di una banalità enorme, un vero e proprio tuffo nella zona di comfort delineata dal “Viaggio dell’eroe” di Campbell e compari e in questo Casarosa e soci non hanno voluto minimamente osare. Non si è mai col fiato sospeso, si sa esattamente dove si andrà a finire, si anticipa il finale e ogni gesto è telefonato con tanto di prefisso davanti. Stiamo pur parlando di un film soprattutto per bambini e Pixar, che non ha mai brillato per trame alla Cristopher Nolan.

Cioè che è un vero godere per gli occhi, invece, è la qualità del design e dell’animazione che si discosta dal fotorealismo e restituisce una dimensione molto più vicina al cartoon vecchio stile. Qui si vede come Casarosa ha attinto a piene mani dal suo grande maestro Hayao Myiazaki: c’è dentro Ponyo, ma anche Kiki e quei personaggi femminili “forti” come Giulia, insieme a un tono scanzonato e mai volgare. C’è dentro tutta la liguria marittima nel film, manca solo il camallo del Porto di Genova, ma la vita dei borghi di pescatori da Finale Ligure a Portovenere è tutta lì in quelle case colorate di Portorosso.

La parte debole del film è il noioso prologo che narra la vita di Luca come pastore prima di incontrare Alberto: necessaria ma che forse avrebbe meritato qualche colpo di cesoia in più. Quando si entra a Portorosso, invece, tutto diventa così bello da vedere che anche la trama passa in secondo piano e si cerca di cogliere ogni piccolo aspetto e finezza (v. la sezione “Curiosità”).

Doppiaggio ben eseguito, anche se avrei preferito qualche “localizzazione” in più, magari coinvolgendo più attori liguri per le voci adulte (solo Fabio Fazio, che per altro doppia 3 frasi di un personaggio ultraminore), magari il bravo Paolo Kessisoglu, Crozza, Bizzarri, Paci, Lastrico, Solenghi, Pagni o Di Ghero. C’era l’imbarazzo della scelta ma la scelta di Disney è stata quella di fare un doppiaggio da “accademia” con italiano in perfetta dizione che neutralizza l’origine dei personaggi. Peccato. Merita allora una seconda visione in lingua originale per cogliere quei momenti in cui è stato usato l’italiano e non l’inglese, almeno.

Curiosità e riferimenti

Queste alcune curiosità tratte da Wikipedia (poi sono state eliminate) ma sono molto interessanti:

  • L’ubicazione dell’immaginaria Portorosso, il cui nome richiama le località di Portofino e Monterosso, viene rivelata da una mappa in possesso del pescatore Giacomo, a inizio film. È situata appena a nordovest di Corniglia e quindi nelle Cinque Terre, più o meno in corrispondenza di Vernazza, che è stata la principale fonte d’ispirazione per la location. Tuttavia, Portorosso presenta alcuni elementi di altri borghi liguri come le case colorate, la banchina coperta da arcate presente anche nel porticciolo di Camogli o la “latteria” antistante la fontana nella piazza principale, come si vede anche a Boccadasse.
  • Immaginaria è anche l’isola dove risiede Alberto, che presenta caratteristiche simili, per forma e dimensioni, con l’isola di Bergeggi o l’isola del tino.
  • Numerose locandine di film degli anni ’50 e ’60 sono visibili appese alle case di Portorosso, come “Vacanze romane” o “La strada” di Fellini.
  • Il cognome dell’antagonista Ercole è di origine nobiliare lombarda: “Visconti”, portato anche dal regista Luchino Visconti, attivo soprattutto negli anni ’50 e ’60 dove è ambientato il film, e fonte di ispirazione per il regista.
  • Altri cognomi tipicamente liguri come Pittaluga o Repetto, sono visibili sulle insegne di alcune attività commerciali di Portorosso. Il cognome di Giulia e Massimo, Marcovaldo, riprende invece il protagonista di una novella di Italo Calvino. Allo scrittore italiano, grande fonte di ispirazione per il regista Casarosa, è anche dedicata la piazza principale di Portorosso.
  • Altri artisti italiani, come LeonardoMacchiavelliDe Amicis o Collodi, sono ricordati nel film attraverso nomi di personaggi, vie o riferimento diretto alle loro opere.
  • A fianco dell’officina del paese, si può leggere la targa pubblicitaria “Gomme Ravatti: le migliori del mondo“. In lingua ligure, “ravatto” vuol dire esattamente l’opposto, ovvero un oggetto di qualità molto scadente.
  • Due tipi di pasta tipicamente liguri, le trenette e le trofie, sono citate più volte nel film, oltre all’immancabile pesto e alla focaccia; quest’ultima presta anche il nome alla barca di Ercole.
  • Oltre a Portorosso, nel film appaiono anche due città realmente esistenti: Roma (e il Colosseo durante il sogno ad occhi aperti di Luca in casa di Giulia) e Genova, quest’ultima presente in due tavole dei titoli di coda, di cui una è una vista panoramica dalla spianata di Castelletto.
  • Il “vero” Alberto, il bambino che ha ispirato Enrico Casarosa nel creare il personaggio omonimo del film, presta la voce a uno dei pescatori nella versione italiana, mentre in quella inglese è doppiato dallo stesso Casarosa.
  • Luca menziona un pesce chiamato “Enrico”, come il regista del film, che si sarebbe perso o forse è morto. Probabilmente, è il pesce che appare nella scena dopo i titoli di coda assieme allo zio di Luca (originariamente doppiato da Sacha Baron Cohen).

E a voi è piaciuto Luca?

A presto!

Nuovo racconto free: “La buttafuori”

Carissimi lettori, spero che le vostre feste stiano trascorrendo nel migliore dei modi, in questo anno così difficile.

Per farvi passare un po’ il tempo, ecco un nuovo racconto free, pubblicato sia qui su LorenzoFabre.com che su Wattpad: “La buttafuori“.

Stavolta ci spostiamo nel freddo nord Europa, dove una ragazza di nome Erika, lavora come buttafuori in una discoteca. Erika è una ragazza forte e atletica, ma nasconde un animo sensibile. Guai a farla arrabbiare, tuttavia: se ne accorgerà chi incrocerà la sua strada in questo racconto dalle tinte pulp, come il precedente.

Come già detto, di tanto in tanto, pubblicherò qualche racconto liberamente accessibile nella neonata categoria “Racconti Liberi“, ma vi consiglio di seguire anche la pagina Facebook per temi più leggeri e il profilo Instagram per qualche foto.

E ora, vi lascio alla lettura de “La buttafuori“.

A presto e buone feste!

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