Benvenuti nella seconda parte sulla vita e attività dei medici e chirurghi a Genova nel Medioevo. Se vi siete persi la prima parte, dove affrontavamo vita e compensi dei medici “physici”, potete trovarla qui oppure nell’ottimo sito Genova Medievale.
Dopo aver parlato dei medici propriamente detti e di come, a Genova, non fossero stati trattati inizialmente in maniera né troppo benevola né lautamente remunerati, meritano ora adeguata menzione coloro che maneggiavano le lame, e non mi riferisco ai soldati.
Chirurghi e barbieri a Genova nel medioevo
La chirurgia è una disciplina che esiste dalla preistoria e ha seguito lo sviluppo umano di pari passo. Nel paradosso di essere considerata dai dotti physici un’arte minore, è forse quella che più di tutte ha subito progressi e trasformazioni nei secoli, che la medicina “interna” vedrà ingenti solo a partire dalla scoperta dei batteri. Inizieremo con una visione d’insieme del chirurgo medievale e poi vedremo come si comportavano i chirurghi genovesi.
La “Medicina Esterna” tra dotti e praticoni
Dato che abbiamo citato il papa-medico Pietro Ispano sparlare dei medici, non possiamo non chiamare al banco dei testimoni anche un chirurgo medievale, il fiammingo Thomas Scellinck, e leggere come descrivesse i colleghi. Egli scrisse:
“La maggior parte dei chirurghi sono ignoranti […], spacconi, gradassi e truffatori, che cercano sempre di calunniare i chirurghi sapienti.”
Non molto gentile, dunque. Mentre il collega Jan Yperman, sempre nel periodo medievale, definisce la sua figura di chirurgo ideale:
“Il chirurgo deve avere delle ottime mani e delle dita affusolate. Egli sarà di corporatura robusta, e non si dovrà mai lasciare vincere dalle emozioni. Egli avrà vista sicura, idee costantemente chiare […]. Non deve conoscere solo la medicina, ma i libri sulla natura e sulla filosofia […]. Egli non adulerà se stesso, […] consolerà sempre il paziente, […] dai ricchi chiederà ingenti salari, dagli altri quanto possono pagarlo a seconda delle loro finanze, e curerà i poveri per l’amor di Dio che gliene ha dato la possibilità.”
Rincuorati dalle sue parole, proviamo a cercare ulteriore riscatto della categoria leggendo le parole di uno dei chirurghi più famosi del medioevo, Henri de Mondeville:
“I medici [intende i physici, NdR] non fanno altro che ciarlare” (quindi non si sporcano mai le mani), mentre i chirurghi “sono superbi e pomposi” ma “totalmente ignoranti. […] Non vedo tra i miei colleghi nessun chirurgo che sia incline allo studio; pochissimi sono letterati; se ce ne sono, o sono in numero esiguo oppure sono interamente avidi di denaro.”
Perché tanto accanimento da parte degli accademici? C’è un motivo. Vediamolo insieme.
I barbieri-chirurghi
L’arte chirurgica, considerata un “male necessario” dalla casta snob dei sanitari togati e non particolarmente amata dalla Chiesa (che la lasciava nelle mani degli Ordini minori), nella prima fase del Medioevo era esercitata per lo più da barbitonsori o barbieri chirurghi illetterati che, tra un taglio di capelli e una spuntata alle unghie, si dilettavano anche in salassi, riduzione delle fratture, incisioni di ascessi ed estrazioni dentarie. Erano assistiti dai loro “garzoni” ovvero i barbierotti, che ne apprendevano l’arte per poi esercitarla a loro volta. Privi di qualsiasi accademia ma, più o meno dal tardo ‘200, dotatisi di ordini professionali ben strutturati, i barbieri chirurghi imparavano l’arte usando gli animali o gli stessi pazienti come campo di addestramento, non di rado essendo analfabeti o comunque privi di specifici testi di riferimento fino al tardo medioevo/rinascimento. Per questo, il chirurgo era il grande sperimentatore del suo tempo, talvolta a scapito dei pazienti a lui contemporanei ma, aumentando le sue capacità e conoscenze, a beneficio di quelli futuri.
Curiosamente, l’odierna insegna dei barbieri, ovvero il palo a strisce bianche e rosse (oggi rotante e anche blu), deriva proprio dall’origine sanitaria di questa categoria. Veniva infatti esposto da quei barbieri-chirurghi che praticassero i salassi; un paletto veniva fatto stringere dal paziente per distendere le vene e il bianco e il rosso rappresentavano le garze insanguinate; la spirale era forse un riferimento al serpente avvolto al bastone di Asclepio, ancora oggi simbolo dei medici, o al doppio serpente del caduceo di Hermes, emblema dei farmacisti (simboli tuttora ampiamente confusi tra loro).

kim traynor / Barber’s pole, Drummond Street / CC BY-SA 2.0 – Wikimedia
Le operazioni chirurgiche e le specializzazioni nel Medioevo
Il chirurgo di qualsiasi foggia, inizialmente, non godette di ottima fama. Secondo Mondeville, ciò era dovuto alla sua attività sanguinolenta, tanto da spingerlo a pratiche turpi – da linee guida medievali – come assaggiare il sangue dei pazienti proprio come il medico faceva con l’urina (eww!).
Eppure, non bisogna (necessariamente) immaginare il chirurgo medievale come un macellaio voglioso di aprire pance: gli spettavano più che altro lesioni odontoiatriche, urologiche, ortopediche o cutanee (es: fistole, cisti ecc.). Varie, infatti, erano le patologie che richiedevano comunque un doppio approccio medico-chirurgico, ad esempio i diffusissimi calcoli renali (il “mal della pietra”). È facile immaginare che le operazioni chirurgiche che oggi chiameremmo “open”, non potevano avvenire con la frequenza odierna e anzi, nel caso dei trattati sulle ferite belliche, spesso si esortava il curante a lasciare la perforazione dell’addome “nelle mani di Dio”, perché un intestino perforato o necrotico era causa di morte quasi certa. Però, grazie ai paleontologi, sappiamo che le trapanazioni craniche si effettuavano da tempi preistorici e che il paziente non di rado sopravviveva anni dopo tale intervento, nel medioevo molto praticato non solo per alleggerire eventuali raccolte di sangue pericolose, ma anche – perché no – per allontanare ipotetici demoni dalla testa di pazienti evidentemente escandescenti.

Fonte: Institute of Archaeology and Ethnografy of the Siberian Branch of Russian Academy of Sciences
Odiernamente, il chirurgo si specializza in qualcosa (come il neurochirurgo). Se è vero che nel medioevo “tutti cercavano di saper far tutto”, anche all’epoca si crearono comunque piccole aree di eccellenza: nel ‘400, a Norcia e nel borgo di Preci, si sviluppò una scuola di chirurgia “autoctona” ed “empirica”, specializzata in particolare in chirurgia oculistica (per la cataratta, vi risparmio la descrizione della tecnica medievale per amor vostro), nelle ernie inguinali e nella litotomia (rimozione dei calcoli renali). In zona si praticava anche la chirurgia veterinaria (castrazione di animali) e si sviluppò quindi una scuola laica. Alcuni chirurghi norcini/preciani guadagneranno la fama nelle corti di mezza Europa.
Nel ‘500 poi, inizia anche un incredibile viaggio nella chirurgia ricostruttiva, con la rinoplastica secondo Gaspare Tagliacozzi, affascinante quanto geniale tecnica usata fino al 1800, usando un pezzo di cute del braccio per ricostruire il naso, separando il lembo di pelle dall’arto solo dopo alcuni giorni, in modo da attendere che fosse vascolarizzato adeguatamente dal viso (non fosse chiaro, l’immagine sottostante descrive meglio).

Fonte: De curtorum chirurgia per insitionem, 1597, di Gasparo Tagliacozzi
Il chirurgo laureato
Appreso quanto la chirurgia fosse un’arte complessa, alla categoria dei praticoni improvvisati si affiancarono nel tempo figure accademiche: il cerusicus / cirurgus / surgicus “puro” (che spesso spillava ai nobili qualche soldino sonante) o il “medicus praticus” più alla mano, che faceva un po’ da physicus (il medico teorico) e un po’ da cerusicus e dispensava la sua arte tra la popolazione più variegata.
Dal 1200 si assistette poi a un netto cambio di passo nella considerazione del chirurgo. Prima di allora, a Genova, egli era considerato un consulente del physicus: prendeva ordini e prescrizioni solo dal medico per legge, anche se l’attività “in nero” era estremamente diffusa. Dalla scuola francese e italiana sorsero individui di incredibile levatura come Guglielmo da Saliceto, Ugo de’Borgognoni e suo figlio Teodorico, Henri De Mondeville, Guy de Chaulliac, fino al geniale barbiere Ambroise Paré del 1500, quando i grandi atenei erano fucine di chirurghi togati capaci di scrivere interessanti manuali e trattati diffusisi in tutta Europa. Anche gli arabi andalusi ebbero in Albucasi il loro degno rappresentante, anche se paladino strenuo della cauterizzazione (ahia!). Nel 1490, l’università di Parigi aprì le porte anche ai barbieri chirurghi, nobilitando quindi le loro esperienze e aiutando l’umanità a consacrare i talenti tra loro presenti.
La “prima” anestesia
Oggi, spalla imprescindibile del chirurgo in sala operatoria, l’anestesista può vedere in Teodorico de’Borgognoni (che però riprese la formula da un precedente medico) un suo antesignano. Ci portò la ricetta della famigerata spongia somnifera, oggi per fortuna sostituita da migliori e più sicuri anestetici. Eccola:
- “Si prendono queste cose: mezza oncia di oppio tebaico, otto di succo della verde erba di Matala; tre di succo di verde giusquiamo; di succo di mandragola (tratto) dalle foglie spremute, mezza oncia trita; raccogli così per mezzo di una spugna in una unica pasta, e diligentemente lascia asciugare. Quando vorrai farne uso per mezzo della stessa spugna, per un’ora immergila in acqua calda e avvicinala alle narici, ed avvertirai il paziente che da sé stesso assorba quell’essenza, per dormire a lungo; e quando lo vorrai risvegliare, applicherai alle sue narici un’altra spugna, imbevuta di aceto scaldato, e potrai così scacciare il sonno.”

Miniatura dal Post Mundi Fabricam, codice francese del XIV secolo.
Con questo mix di oppio e alcaloidi, il paziente si addormentava (anche per sempre, se il dosaggio era errato) e il chirurgo poteva esercitare indisturbato la sua arte. Fino alla scoperta dell’etere dietilico, oppio e altre sostanze furono le sole usate in anestesia, mentre sulla classica scena da film del ferito che si scola il whisky e poi si fa operare, dai documenti di medici storici evinciamo che bere grosse quantità di alcolici prima di un’operazione fosse anche sconsigliato. Ovviamente, possiamo presumere che sarà pure capitato, nelle migliaia di operazioni compiute in setting non raccontati dalla letteratura, ma quest’ultima per lo più lo sconsigliava.
La situazione del chirurgo genovese
Sulla componente vulneraria, a Genova la presenza di medici specialisti in ferite (medici vulnerum) si riscontra fin dal XII secolo. In una repubblica marinara come quella, non stupisce che si facesse anche un uso nautico dei medici. Durante la navigazione si poteva essere feriti in molti modi: per abbordaggi (o ammutinamenti) ma anche per le normali manovre atte al governare una nave: schegge di legno, sfregando il cordame sulle mani, ustionandosi, ferendosi con utensili o cadendo dagli alberi stessi dell’imbarcazione. L’esigenza di un medico di bordo era quindi tutt’altro che secondaria, ma trovare qualcuno voglioso di imbarcarsi non era semplice.
Se la medicina togata e accademica aveva trovato una sua componente elitaristica a Genova, iniziamo a immaginare che questo avvenisse anche per i chirurghi dotti, che volevano distinguersi dai barbieri. Lo evinciamo, ad esempio, nel contratto per approntare una flotta di quaranta galee, stipulato nel 1337 tra i genovesi e Filippo VI di Valois, nell’eterna lotta contro gli inglesi. Notiamo come l’ammiraglio avrebbe avuto a disposizione sulla sua nave il “professorone”: un maestro chirurgo laureato (con l’ottimo stipendio di 10 fiorini al mese). Mentre su tutte le altre imbarcazioni sarebbero stati presenti “i chirurghi di serie B”: un barbiere e un barbierotto buonavoglia, incaricati della salute dei marinai. I buonavoglia erano persone che venivano pagate per eseguire i più umili compiti di bordo, tra cui remare (schiavi e carcerati iniziarono a essere forzati al remo solo verso la fine del medioevo genovese) e tale barbierotto proveniva proprio da quella ciurma di volenterosi o disperati.
Sull’attività dei barbieri di bordo genovesi non venivano di certo spese parole di stima, arrivando anche ad “accusarli” di causare morti per loro imperizia. La presenza di medici physici a bordo era invece più sporadica e dovuta all’assistenza dei naviganti senza necessità chirurgiche e per ispezionare le derrate alimentari, mentre ai chirurghi era lasciata tutta la parte della cura delle ferite, drenaggi di ascessi e fistole e ogni cosa per cui il medico avrebbe storto il naso. Nei documenti è noto che il barbiere di bordo avesse un suo “forziere” pieno di strumenti e ingredienti: sanguisughe, grassi animali, bende e olii vari.
Eppure, la penuria di sanitari a bordo si evince da “una supplica fatta dal Collegio dei Medici di Genova al Doge, nell’intento di ricordargli che l’obbligo di fornire per il servizio delle armate e delle galee uno o più medici era praticamente inattuabile se questi medici non ricevevano il dovuto compenso mensilmente e non a servizio compiuto”, anche perché, vista la perigliosità della navigazione medievale, non sempre si arrivava vivi in fondo al viaggio. Intuiamo, quindi, come la Compagna Communis Genuensis non nutrisse grande stima di questi professionisti.
I chirurghi tardomedievali genovesi, dunque, vivevano in quella tipica commistione coi barbieri. Tale confusione si ripercosse anche nella creazione degli ordini professionali: a Genova, chirurghi e barbieri finirono tutti nella stessa associazione professionale, la Ars chirurgicorum ac tonsorum, la cui chiesa era dedicata ai santi-medici Cosma e Damiano, ancora oggi uno dei luoghi di culto più graziosi del centro storico. Non è un caso, visto che una leggenda vedrebbe i due santi addirittura come i primi ad aver eseguito un trapianto di gamba…
Tale commistione durò fino al 1600, secolo in cui il barbiere venne sempre più estromesso dall’arte chirurgica e gli venne lasciata solo la parte igienica e la cura dei poveretti.
E la formazione? sappiamo che l’apprendista barbiere genovese doveva esercitarsi per sei anni (curiosamente, è la durata dell’odierno corso di laurea in medicina e chirurgia; al medico invece “bastavano” quattro anni): si iniziava a lavorare a quattordici anni fino circa ai vent’anni di età prima di potersi mettere in proprio, a distanza di “quindici case” dal maestro, onde evitare la concorrenza. La corporazione, naturalmente, replicava quella medica ed era richiesto un esame (e una quota in denaro) per entrarvi, obolo previsto anche per i forestieri che si fermassero ad esercitare nella Repubblica per più di due settimane. Il loro esercizio, poi, non era solo in bottega ma anche ospedaliero, talvolta senza compenso, giusto per farsi una base-pazienti da seguire poi privatamente.
Un esempio di chirurgo medievale ligure
Non possiamo chiudere il capitolo sui chirurghi medievali genovesi senza parlare di Giovanni da Vigo, anche detto “Giannettino il Genovese” dai contemporanei. Nato nella zona di Rapallo, dove esisteva una discreta comunità medica (abbiamo parlato anche delle due “medichesse” nello scorso capitolo) e buoni chirurghi litotomi come il suo probabile maestro Battista da Rapallo, Giovanni divenne chirurgo delle armate papali alla fine del 1400 e poi fu l’archiatra di papa Della Rovere alias Giulio II. Fu anche tra i primi a esercitare la chirurgia presso l’ospedale di Pammatone, oggi inglobato dal tribunale di Genova e sostituito dal Policlinico San Martino dai primi del ‘900.
Utilizzò macchinari avanzati per l’epoca (e ne inventò uno per la trapanazione del cranio) e batteva spesso la valle del Bisagno in cerca di erbe medicamentose da usare nelle sue preparazioni.
Da Vigo, però, divenne famosissimo per il suo manuale di chirurgia che era un must dei tempi e tradotto in varie lingue: “De practica copiosa in arte chirurgica” dove trattò di decine di patologie, dai polipi nasali, alle fistole, ai “tumori infiammatori”, scrofola e quant’altro. Poi si occupò di due novità del tempo: la prima fu la grande infezione del rinascimento, il “mal franzese” (tra i liguri chiamato “delle tavelle”) oggi noto come Sifilide, di cui sicuramente lo stesso papa Della Rovere – chierico “allegro” e con figli – soffriva. Da Vigo descrisse con cura tutte le orrende fasi della malattia e trattava le lesioni con impiastri di mercurio, zolfo, olii e resine varie, nonché vino: tutte sostanze che hanno effettivamente potere antibatterico. Si nota, anche dalla sua tecnica di fumigazione delle ragadi anali, come il chirurgo rinascimentale non agitasse solo il coltello ma provvedesse anche alla terapia medica delle lesioni esterne.
Il nostro scrisse, nelle sue opere, una guida esplicita per i medici naviganti, e ciò non ci stupisce, essendo cittadino genovese. Tra gli scritti troviamo una guida sugli ingredienti da portarsi appresso: assenzio, anice, canfora, aloe, ma anche farine di orzo o fave, e gli immancabili minerali, allume, ossido di rame e il litargirio (piombo), poi grassi vari e polvere di mummia!
Sì, proprio quella. La polvere di mummia era un ingrediente prezioso che si riteneva potesse far bene ai tessuti viventi, dal momento che quelli delle mummie mica si decomponevano! Ciò grazie ad alcuni prodotti neri e bituminosi poco facili da reperire e che qualcuno consigliava di estrarre dalle mummie egizie, che venivano tritate, macerate, distillate… e poi bevute o spalmate sulla parte da “curare”. Data la difficoltà nel riconoscere i prodotti autentici, esistevano anche i falsificatori di mummie che usavano raccapriccianti metodi per procurarsi il prezioso “oro nero”, come usare cadaveri freschi lasciati a imputridire dopo “iniezioni di asfalto”.
Tornando al Da Vigo, la raccomandazione per il ferito a bordo era di usare semplici bende di lino senza impiastri vari ma un olio rigenerante “ad incarnandi” che era di consuetudine per l’epoca. Purtroppo, Da Vigo prese un grosso granchio sulle ferite da arma da fuoco, reputando velenosa la polvere da sparo e quindi spingendo a cauterizzare gioiosamente ogni ferita, producendo danni ben peggiori. A “sbugiardarlo” fu un giovanissimo barbiere francese, Ambroise Paré, che trovatosi ad aver finito l’olio per cauterizzare i feriti, si limitò a bendare le loro lesioni dopo un semplice impacco e scoprì che i feriti cauterizzati, il giorno dopo, erano tutti in preda a febbre e dolore mentre quelli bendati no. Da allora giurò che “mai più avrebbe crudelmente bruciato dei poveretti feriti da archibugio”. Ma questa è un’altra storia.
Arrivederci alle prossime puntate, dove vedremo cenni di terapie prescritte dai medici liguri e gli ospedali medievali sul territorio genovese!
Bibliografia essenziale
- Balletto, L., (1986) “Medici e Farmaci, scongiuri e incantesimi, dieta e gastronomia nel medioevo genovese”, Collana storica di fonti e studi
- Cosmacini, G., (2003) “La vita nelle mani: Storia della chirurgia”, Laterza
- Cosmacini, G., (2011) “L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi”, Laterza
- Palmero, G., (2007) Ars medica e terapeutica alla fine del Medioevo. Il caso genovese”, Nuova rivista storica
- Pesce, G., (1951) “I medici di bordo ai tempi di Cristoforo Colombo”, Civico Istituto Colombiano
- Pescetto, G. B., (1846) “Biografia medica ligure del dott. G. B. Pescetto”, Tipografia del R. I. Sordo-muti
- Dr.Cabanes (1918) “Chirurgiens et Blessés à travers l’histoire. Des origines à la Croix-Rouge.”, Albin Michel
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