Medici e chirurghi nella Genova Medievale – Terza parte: terapie e farmacisti

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Terza parte del viaggio nelle attività dei medici medievali genovesi. Oggi parleremo delle terapie che erano prescritte ai malcapitati pazienti nella Repubblica di Genova medievale. Con la doverosa premessa di chiarire da quali basi partisse la medicina medievale.

Se volete recuperare la prima parte dedicata ai medici propriamente detti potete trovarla qui (oppure nell’ottimo sito Genova Medievale), mentre a questo indirizzo troverete la seconda parte dedicata ai chirurghi e barbieri.

Cenni generali di terapia medievale

Secondo il più classico dei classici, Ippocrate, dentro il corpo umano vi sarebbero quattro fluidi detti umori: sangue, bile nera (un mix di sangue coagulato e muco scuro, mai identificato realmente), bile gialla (quella del fegato/colecisti), e flemma (il catarro), il cui sbilanciamento sarebbe stato la causa delle malattie. Un surplus di un particolare umore, inoltre, avrebbe reso il paziente, appunto, di “cattivo umore”. Eccesso di bile nera? Il paziente sarà “melanconico” e dunque triste, mentre un surplus di bile gialla lo avrebbe reso “collerico” e irascibile.

La teoria umorale ippocratica, l’ABC del medico medievale.
Ronev, CC0, via Wikimedia Commons

Tali teorie bislacche si mescolavano con pratiche prive di razionale come l’astrologia o l’uroscopia: osservare le urine per capire da quale malanno fosse affetto il paziente (sì: le assaggiavano per fare diagnosi di diabete mellito. Ma, al netto del ribrezzo, aveva senso).

Trovata la presunta causa del malanno, il paziente poteva andare incontro a diverse terapie (o nessuna): poteva essere allegramente salassato (ovvero farlo sanguinare incidendo una vena) per riequilibrare gli umori, ottenendo soltanto di anemizzarlo e forse renderlo più “mansueto”, se non addirittura di peggiorare la sua condizione. Poteva essergli prescritta una rigida dieta (regimen) che tenesse conto della fonte presunta del malanno secondo lo schema umorale: ad esempio se la malattia fosse stata considerata “calda” o “umida” ecc, la dieta sarebbe stata “fredda” o “secca”. Il regimen riguardava anche norme igieniche come l’attività fisica e variava nel tempo a seconda dello stadio di malattia, arrivando talvolta a prescrivere l’alimentazione di cibarie raccapriccianti.

Significativo e ugualmente sgradevole era un altro modo di allontanare la materia peccans: assumere sostanze emetiche o lassative, irritanti la mucosa digestiva in modo da garantire un’ipotetica catarsi del malanno da sopra… o da sotto. Questo poteva aver senso nelle infezioni digestive dove ancor’oggi, in alcuni casi, si può consigliare al paziente di non impedire il vomito o la diarrea, in quanto servono ad allontanare l’agente infettivo dal tubo digerente. Tuttavia, oggi non si somministrano sostanze irritanti e si lascia che la natura faccia il suo corso.

A far precipitare la credibilità di questa già poco difendibile arte ci si metteva anche l’astrologia e la infondata credenza che potesse avere una qualsiasi influenza sugli umani destini. All’epoca, tale pseudoscienza era invece estremamente gettonata. Nella farmacopea ligure troviamo, tanto per dire, la ricetta di un amuleto d’oro con incisi alcuni astri, da bagnare nel sangue di capra e applicare sulla schiena per impedire la formazione dei calcoli renali. Oppure, prassi ubiquitaria, rimandare un intervento chirurgico alla settimana successiva perché le stelle non erano correttamente allineate.

Non ultimo, il medico poteva prescrivere rimedi farmacologici, quasi tutti a base di erbe, spezie e minerali, spesso associati a una patologia solo per il loro odore o colore (“sanguinamento? Usiamo un fiore rosso oppure con le foglie bucate!”). Nella farmacopea medievale troviamo molte sostanze disgustose o pericolose (come lo sterco d’asino, ragnatele e bava di lumache) e pomate, olii, unguenti, impiastri, cataplasmi o elettuari a base di spezie o sali metallici, già più sensati per il loro potere antibatterico ma tossici a dosi errate. Non mancavano una serie di ingredienti sbalorditivi come la “mumia” di cui ho già parlato precedentemente (polvere dell’ossidazione dei cadaveri mummificati) e veri evergreen, quali la “teriaca” (v. in seguito), la trementina di Venezia o l’olio di rosa, che erano rimedi comuni come oggi lo è il paracetamolo.

Il già ampiamente citato rispetto dei classici greci e romani (che ogni medico doveva non azzardarsi mai a mettere in discussione) portava a considerare come sacre teorie erronee. Come quella del pus ereditata da Galeno, il principale esempio del “si è sempre fatto così”, la frase nemica numero uno della scienza. Se un medico medievale avesse visto un ascesso, essendo sconosciuti sia i batteri che gli antibiotici, il dotto avrebbe applicato un terribile misunderstaning della medicina classica. Galeno, che visse ai tempi dell’Impero Romano, aveva notato che la produzione di pus si avvicinava all’esito finale dell’infezione (inclusa però la morte…) e l’aveva definito “pus bonum et laudabile”, aggiungendo però che “ubi pus, ibi evacua” (“dove c’è del pus, drenalo via”). Il travisare la teoria galenica portò per secoli i medici a considerare solo la parte “laudabile” del pus, applicando alle ferite dei malcapitati ogni sorta di mostruosi impiastri e unguenti a base di schifezze e quanto di più settico vi fosse, per stimolare ancora di più la produzione di pus. Potete immaginare, dunque, come andasse spesso a finire.

La tanto decantata medicina araba, poi, arrivata in Europa con la traduzione del canone di Avicenna nel basso medioevo (l’Harrison dell’epoca), non era molto di più che una rivisitazione delle teorie ippocratiche condite con le più moderne teorie della scuola di Baghdad. Fu sicuramente un miglioramento scientifico, ma non aspettatevi miracoli nemmeno da essa.

Tutto da buttare? Affatto. Alcune intuizioni – ad esempio quelle di Celso – erano fondate e ancora oggi utilizzate, come il potere antisettico di alcuni metalli, il cambio periodico delle medicazioni o la legatura dei vasi nelle emorragie in luogo del devastante uso della cauterizzazione. Ma, specialmente nelle malattie infettive, davvero si poteva fare affidamento perlopiù sulla forza del corpo e a volte era meglio evitare del tutto l’osservazione medica. Non stupisce, quindi, il trovare spesso individui non-medici che, nelle carte notarili, dispensavano anche consigli sanitari che “su di loro funzionavano”.

Terapie e diete del medico medievale genovese

Tracciato l’amaro quadro empirico dell’arte medica medievale, vediamo che cosa è giunto a noi dalla Liguria.

Nella Superba l’atto medico poteva consistere in una prescrizione essenziale e generica e a basso costo (quella che chiedi al tuo amico medico davanti a una pizza: “senti c’ho un dolore qua, che può essere?”) oppure il vero e proprio “consulto” (consilium) che si riservava al paziente VIP/pagante, diviso in tre parti: il casus (anamnesi e diagnosi della malattia); il regimen (l’insieme della dieta e delle norme igieniche da seguire) e medicinalia (la terapia farmacologica).

Il Salasso, una pratica diffusissima
da Aldobrandino of Siena: Li Livres dou Santé. XIII secolo. British Library, London, UK

L’esempio della gotta

Tutti, pensando al medioevo, evochiamo spesso la “gotta”, una dolorosa afflizione delle articolazioni periferiche dovuta a un eccesso di acido urico, i cui precursori sono presenti in molti alimenti proteici quali carne e pesce, ma che per lo più è dovuta a problemi renali imprevedibili. Vediamo tre approcci a questa patologia.

  1. Un medico medievale di Moneglia proponeva una dieta a base di pulcini e uccellini (…ma non avevamo detto che era meglio evitare la carne?!), bere acqua e zucchero, assumere compresse di ermodattilo e rabarbaro per la fase acuta e poi altre piante per il mantenimento della remissione. Questo perché la gotta era una malattia “calda e secca” secondo la teoria umorale e quindi si prescrivevano alimenti “tiepidi e umidi”.
  2. Un medico “togato” del Quattrocento, Antonio da Novi, consigliava di non bere alcolici (va benissimo!) ma sorseggiare acqua cotta con mollica di pane e un po’ di sciroppo di scorza di limone e – finalmente! – astenersi dai cibi carnei di bovino adulto e suini (però gli uccellini andavano bene anche per lui), lasciando però il paziente libero di alimentarsi con vitelli giovani o carne di capriolo (eh ma allora! Era partito bene!) per poi riprendere dopo 1-2 settimane ad alimentarsi di ogni carne, partendo con l’intramontabile brodino di pollo (consiglio tra i peggiori, in quanto il brodo e il pollame aumentano la produzione di acido urico!). Più o meno concessi gli altri alimenti. In pratica, si faceva un passo avanti e tre indietro. Poteva andare peggio? Certo che sì. Al paziente venivano prescritte delle pillole lassative di erbe e di indursi il vomito due o tre volte al mese, di stare tranquillo senza incavolarsi e astenersi dal sesso (che tanto hai male al piede). Finiti i consigli, si passava a una complicatissima terapia medica che prevedeva l’assunzione di diverse pillole e sciroppi a seconda del periodo dell’anno e diverse volte al giorno. Tra gli ingredienti troviamo la lavanda, la salvia, il miele rosato, il ravanello, la cicoria e l’immancabile teriaca (ne parleremo nella prossima sezione).
  3. Un terzo medico, ci propone anche consigli sul posto dove vivere (meglio una casa lontana da paludi e con un buon clima… sì ma sai che IMU?), di mangiare i cibi tiepidi, diluire il vino, rinunciare alle spezie e, come prima, darsi una calmata coi vari vizi carnali e non.

Quale di queste terapie è corretta secondo la moderna medicina? Praticamente nessuna, in quanto la gotta prevede di non consumare troppi cibi ricchi di “purine”, precursori dell’acido urico, come le frattaglie, pesce e pollame, e prevede una terapia con farmaci impossibili da ottenere nel medioevo, tranne l’estratto di un fiore chiamato croco che contiene la colchicina, efficace nella gotta e che in effetti trovava uso nei dolori articolari già prima di Cristo. Ovviamente, non lo troviamo in queste prescrizioni (mai ‘na gioia).

Il mal francese, rimedi d’alto mare e non solo

L’altro terribile morbo che sancì per convenzione la fine del Medioevo, insieme alla polvere da sparo, la scoperta dell’America e la caduta dell’Impero d’Oriente, fu “il mal franzese”: l’infezione da treponema nota con il termine Sifilide, portata in Italia dai soldati di Carlo VIII, a fine ‘400, e prima ancora direttamente dall’America dall’equipaggio di Colombo e successivi.

L’opera del veronese Fracastoro sulla Sifilide, un best seller del 1500

Si tratta di un’infezione inizialmente venerea che, dopo molti anni, può portare a morte il paziente attraverso fasi con disturbi cutanei e poi neurologici. Decine di medici ritengono che questa malattia sia un flagello sui peccatori, data la trasmissione sessuale, e inizia una vera e propria produzione letteraria che si pone l’obiettivo di trovarne causa ma anche cura. Avendo parlato nel precedente articolo dei barbieri-chirurghi, uno di essi di nome Pietro di Porto proponeva, per la cura della sifilide, di spalmarsi grasso di porco, biscia e cavallo, mercurio e ossido di piombo, cera e acqua di rose, per qualche giorno. E l’immancabile “stai tranquillo e non fare l’amore” (che magari infetti qualcun altro).

Per la lombalgia invece, Pietro ci suggeriva di procurarci una canna tagliata da piazzare con una estremità sui lombi, professando una brevissima preghiera corroborata da segni di croce. Tutto con l’aiuto di un bambino che facesse altrettanto, tenendo sui suoi lombi l’altra estremità della canna, forse per trasferire il malanno su di lui?!

L’armamentario di castronerie non finirebbe qui e non riguarderebbe solo i sanitari liguri, sebbene qualche intuizione qui e là vi fosse (vi furono alcuni, ad esempio, che si opposero allo stimolo galenico del pus). E, ad ulteriore complicazione, aggiungiamo che spesso alcuni cittadini comuni dispensavano consigli medici con la stessa autorevolezza dei medici consolidati (800 anni prima di Facebook, pensate!). Oggi abbiamo imparato che la scienza medica era imprecisa, ma fa strano vedere un dottore di legge del ‘300, Bartolomeo di Jacopo, fornire una quindicina di rimedi diversi per patologie che spaziano dalla febbre all’epistassi, e che esso viene citato in un grosso “prontuario” medico ligure, di autore anonimo (Medicinalia Quam Plurima).

Trattandosi di una repubblica marinara, Genova doveva armare di sostanze medicamentose anche le sue galee da guerra. Inizialmente, la fornitura dei farmaci avveniva presso le farmacie conventuali, le più fornite, per poi estendersi anche a quelle private. Verso la prima metà del 1600 fu creata anche una “spezieria” situata alla darsena. Dato che, a partire dal tardo medioevo, le galee genovesi iniziarono a impiegare rematori prigionieri (dopo i poco pagati “buonavoglia”), possiamo immaginare condizioni igieniche devastanti che imponevano la presenza di farmaci a bordo, tra cui le “erbette” a funzione catartica e lassativa, lo zucchero e la rosa oltre ai farmaci destinati ai feriti e a coloro che si ammalassero per il viaggio. Immancabili a bordo due prodotti di uso anche sulla terraferma: la teriaca e l’olio di scorpione.

L’origine della teriaca, ritenuta una vera panacea, è dell’epoca classica, ma trova il suo fulgore nell’epoca neroniana, e nacque come rimedio per l’avvelenamento da serpenti per poi estendersi letteralmente verso ogni malanno. Inizialmente era composta da quattro gruppi di “semplici” (piante medicinali e il medicamento che da esse si estrae): un gruppo che includeva sostanze catartiche o toniche, antipiretiche o astringenti, un gruppo di sostanze eccitanti, un tonico/edulcorante e per finire sostanze oppioidi che hanno un potere sedativo. Ai quattro gruppi venivano sommati tre minerali e poi si prese ad aggiungere anche la carne di vipera lessata e stagionata, nel cui caso genovese doveva essere una vipera femmina senza uova che possibilmente doveva essere catturata lontano dal mare, o avrebbe messo sete al paziente (… Sì certo, sarà ben quella…). Potete immaginare quindi come ci fosse un business sul commercio di vipere, addirittura col Nordafrica. Rimasta nel prontuario per secoli, fu Napoleone a vietarne l’uso, che sparì nel corso del XIX secolo.

L’olio di scorpione, un infuso di olio, tormentilla, euforbia, trementina, castoreo, quasi 200 scorpioni e due belle vipere femmine, fatto tutto bollire con aggiunta di zedoaria e rabarbaro, serviva da antidoto e antibiotico (almeno era inteso così. Non sarò io a provarlo oggi, alla prima tonsillite).

Altri rimedi curiosi sono la “confezione giacintina” (solo per ricchi in quanto formata da polvere di pietre preziose!), il corno di cervo, l’ossimiele (miele e aceto, forse l’unica cosa che avesse davvero un senso), l’unguento egiziaco (verderame, allume, miele e aceto, adoperato per la cura delle ulcere, anche questo con un parziale senso), olii di ogni genere tra cui quello di rosa, la trementina (una sostanza estratta dalla resina e molto usata come vasodilatatore) e centinaia di altre sostanze. Tra le tante ricette pervenute soprattutto negli atti notarili, un infuso di melograno e zucchero per la diuresi (modestamente sensato), la liquirizia per il catarro (di nuovo moderatamente sensato) e centinaia di altri rimedi che oggi troviamo a buon diritto nelle caramelle balsamiche. Per la scabbia (la famosa “rogna”) vengono prescritti unguenti con miele, sale, mercurio, zolfo, trementina e altre sostanze che, quantomeno, avrebbero irritato o ucciso il parassita responsabile. Questo per non bollare tutto come completamente campato per aria.

Per tornare però ai cari vecchi rimedi grotteschi, non possiamo non citare quello che viene indicato per il dolore all’utero, nella zona di Ventimiglia: se il dolore è nella parte alta, far bere alla donna vino e succo di piantaggine (così si ubriaca e smette di lamentarsi…?). Se il dolore è più basso (cervice), fare dei tamponamenti di tal mistura “laggiù” oppure delle fumigazioni con pigne verdi arroventate (!!!). Sipario su quest’ultimo rimedio.

Lo stile di vita sano

Con il termine “regimen” si intendeva sia la dieta alimentare che i consigli per una vita sana, da seguire. Ogni medico qui spaziava dal togliere o aggiungere alimenti più o meno a caso e organizzare la giornata in un certo modo, ad esempio raccomandando di lavorare solo al mattino (bravo!) e di fare passeggiate non più lunghe di mille passi dopo pranzo, condite da un bel pisolino alla fine. Per gli alimenti erano tutti concordi di non mangiar troppo ma di non aspettare la fame (che avrebbe generato cattivi umori), mentre sono diversi i medici che si scagliavano contro i pesci o alcune carni, o che raccomandavano di non mangiare il pane cotto in giornata (ma perché???).

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I consigli del  Regimen Sanitatis Salernitanum del 1480

Naturalmente ogni regimen poteva essere adattato al ceto del paziente. Ecco che Ambrogio Oderico raccomanda di mangiare i cibi in vasellame d’oro o argento che fa bene, e di indossare un bell’anello con smeraldi o rubini di valore. Grande preoccupazione era la potabilità dell’acqua, cosa che non stupisce data l’altissima mortalità delle gastroenteriti da contaminazione fecale, capaci di uccidere anche re come il povero Luigi IX di Francia. Il consumo di cibi o bevande di qualità scadente o una dieta poco variegata erano problemi connessi con il ceto dei pazienti che i medici, perlomeno coloro che hanno lasciato scritti, non sembravano curarsi, preferendo dare consigli a coloro che potevano permettersi anelli con rubini, come sopra.

I farmacisti (speziali) genovesi nel medioevo

Per quanto riguarda i farmaci, molti erano prodotti fai da te dal medico, che poteva custodirne gelosamente il segreto, oppure acquistati dall’antenato del farmacista: lo speziale / apotecario, che secondo lo statuto del Collegio dei Medici della Genova Medievale, poteva fornire farmaci ai pazienti solo su prescrizione medica (spoiler: qualcuno lo faceva anche senza, l’avreste mai detto?). Coloro che lavoravano negli apotecari (le odierne farmacie, con una contaminazione verso le drogherie) non potevano nemmeno “associarsi” con un medico specifico a fini di monopolio sanitario, anche se viene da immaginare quanto fosse possibile aggirare tale divieto.

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Un apotecario – Norimberga, XVII secolo (autore anonimo)

Gli speziali genovesi erano raggruppati in un ordine professionale (potentissimo) assieme ai droghieri (allora detti “aromatari”) e ai confettieri: “Artis Aromatariorum sive Spectiariorum ac aliorum hominum dicte artis”. A Genova, dunque, vi erano due tipi di speziali nel medioevo: coloro che producevano e vendevano farmaci e quelli che oggi chiameremo droghieri. Sulla confetteria possiamo dire che non c’entrano i matrimoni: ai tempi spettava a lei la creazione dei dolci a lunga conservazione, come caramelle e confetti, ottenuti ricoprendo di sostanze dolci semi e altre cibarie. Tali pietanze erano considerate terapeutiche già dall’epoca classica. Perché unire le due arti in una singola corporazione? Perché gli speziali e gli aromatari utilizzavano le medesime piante e sostanze sia per uso terapeutico che come condimenti o ingredienti alimentari.

Nella Repubblica di Genova, l’arte farmaceutica era retta da due consoli, uno per categoria, eletti ogni anno, ed era naturalmente dotata di statuto magistrale di cui ci resta una versione di fine 1400. Esattamente come avveniva per i medici, si stabilì che nessun forestiero o genovese potesse aprire un’apotecario/spezieria se non avesse esercitato il mestiere per almeno sei anni, previo esame da parte con una commissione altisonante formata dal Collegio dei medici, dal Console e consiglieri degli Speziali e da membri sindacatori della stessa Compagna Communis (Repubblica).

Lo speziale propriamente detto (non il droghiere, quindi), doveva produrre personalmente i farmaci e raccogliere personalmente gli ingredienti, non di rado immagazzinati in ampolle senza etichettatura (leggiamo in alcuni testamenti), immaginiamo forse per proteggerle da eventuali abusi e furti. Lo statuto dell’ordine è molto ferreo su alcune cose, come i passaggi per la preparazione della teriaca, già menzionata prima: i suoi componenti dovevano essere esposti per almeno otto giorni nella bottega, a disposizione dell’autorità comunale che poteva compiere un’ispezione.

Gli incantamenti e la superstizione

Dulcis in fundo, inutile dire quando magia e astrologia fossero intrecciate con la medicina. Iniziamo allora con un farmacista. Che gli speziali sgomitassero coi medici per la prescrizione delle terapie non ci stupisce: anche oggi basta entrare in una farmacia sbandierando qualche sintomo blando per ricevere immediatamente un “consiglio” dal farmacista. Quello che farebbe ridere oggi sarebbe il ricevere tale avviso da uno come Tommaso di Murta, speziale genovese, che affermava di aver appreso un rimedio contro la peste da un frate di Milano, il quale a sua volta lo aveva ottenuto (o estorto) in confessionale da… una vecchia strega meneghina! La quale consigliava di confezionare un amuleto cartaceo imbrattato di mercurio da indossare sotto i vestiti e rigorosamente preparato di mercoledì (giorno di Mercurio, appunto).

Per il morso di un cane rabbioso, un medico ligure cita il “quadrato del sator”, una locuzione palindroma latina (notata anche da Christopher Nolan nel suo film Tenet):

S A T O R
A R E P O
T E N E T
O P E R A
R O T A S

Potete leggere tali parole da sinistra a destra o dall’alto in basso e saranno sempre le stesse 5. Carino vero? Sul significato (mai compreso) vi lascio ricercare da soli. Tornando all’atto medico, tale formula, per la rabbia, andava incisa su una crosta di pane rigorosamente rotonda e data da mangiare all’individuo morso. Vi segnalo solo che il lyssavirus della rabbia uccide al 99% in 1-2 settimane, in assenza di tempestivo trattamento post-morso. Non capisco, quindi, come si potesse anche solo sospettare come efficace questa terapia astrusa. Il quadrato ebbe altri molteplici usi in tutta Europa: inciso su un architrave avrebbe protetto la casa dal fuoco e dai fulmini, e poteva anche essere confezionato in un amuleto per aiutare una donna a partorire.

Ma la magia non finisce qui. Sanguinamento dal naso? Prendete un po’ di questo sangue e scrivete una formula magica sulla fronte (“agla, aglala, aglalata”! Harry Potter scansati). Flusso mestruale problematico? Scrivi, ma col sangue di una pollastra che non abbia mai deposto uova, la frase “consummatum est” (le ultime parole di Cristo in croce) sui polsi e le tempie della donna. Bleah.

La domanda è spontanea: il medico credeva in questi rimedi? Probabilmente no. Pietro d’Abano, infatti, diceva chiaramente che questi incantesimi vanno istituiti “per conquistarsi la fiducia del paziente e influire sul suo spirito”. Insomma, il famoso effetto placebo.

E la preghiera? Diffusa, comune e totalmente prescritta in molteplici fogge. Parto difficile? Perché non far sussurrare alla partoriente un “Padre nostro” pronunciato da un verginello? Oppure fabbricare amuleti con preghiere varie? Magari fondendo tutto con la già abusata astrologia?

Conclusione

La terapia medievale ci mostra intuizioni corrette che poi si perdono nel marasma del misticismo e dell’eccessivo rispetto dei classici e in questo nemmeno i medici liguri ne furono immuni, trovandosi spesso a condividere il sapere con altre figure non-sanitarie.

Concludiamo il capitolo rimandando al successivo: gli ospedali a Genova nel Medioevo! Grazie e a presto!

Bibliografia essenziale

  • Balletto, L., (1986) “Medici e Farmaci, scongiuri e incantesimi, dieta e gastronomia nel medioevo genovese”, Collana storica di fonti e studi
  • Caneva, G., (1977) “L’arte degli speziali sulle galee genovesi”, La Casana
  • Cosmacini, G., (2003) “La vita nelle mani: Storia della chirurgia”, Laterza
  • Cosmacini, G., (2011) “L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi”, Laterza
  • Hryszko, R., (2021) “Le radici medievali della Confetteria Italiana” Uniwersytet Jagielloński Instytut Historii
  • Marchesani C., Sperati G., (1981) “Ospedali Genovesi nel Medioevo”, Atti della Società Ligure di storia patria
  • Palmero, G., (2007) “Ars medica e terapeutica alla fine del Medioevo. Il caso genovese”, Nuova rivista storica
  • Pesce, G., (1951) “I medici di bordo ai tempi di Cristoforo Colombo” Civico Istituto Colombiano

Pubblicato da Lorenzo Fabre

Lorenzo Fabre è un blogger e scrittore genovese. Il suo racconto d'esordio "La pillola" è pubblicato nell'antologia Continuum Hopper (Della Vigna), vincitrice del Premio Italia 2017. Fabre è anche tra i vincitori del Premio Racconti Liguri 2017 e si è classificato secondo al Premio G. Viviani 2017 per racconti fantasy. Recentemente ha pubblicato racconti di fantascienza nelle antologie Sarà sempre guerra e Futura Lex. Tra le sue passioni, oltre la scrittura, c'è anche la recitazione teatrale, la storia e la scherma storica medievale, i videogiochi “con bella trama”, le serie televisive avvincenti quali Game of Thrones, Black Sails, Breaking Bad e The Walking Dead, e le scienze, con particolare attenzione a quelle mediche e biologiche. Per ogni altra informazione il suo sito è http://lorenzofabre.com.

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