Su quel ponte: cittadini, un presidente e il Papa. E ognuno di noi.

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Tutti i liguri se lo sono detti: poteva esserci ognuno di noi sul Ponte Morandi, che abbiamo attraversato migliaia di volte. Il ponte delle code serali, della decisione se svoltare a nord verso i monti o a sud verso il porto, come questa città, Genova, stretta tra inospitale conservatorismo e il “vorrei ma nemmeno tanto” spiccare il volo.

Paradossale e triste che La Superba si noti in Italia solo per le tragedie. Dal 2001 e il G8 dove ancora ci si chiede se sia lecito sparare a chi vuole lanciare un estintore dentro una camionetta, arriviamo all’alluvione del 2011 dove il centro cittadino diventa una poltiglia fangosa che ingoia sei vittime. Nel 2013 una nave distrugge la Torre piloti del porto: e i morti sono nove. Quello che sembra aumentare col tempo è l’entità delle sciagure e il numero dei cadaveri. Ieri il crollo del “Morandi” oltre a più di trenta morti, ci ha lasciato macerie tanto reali quanto virtuali: hashtag inutili, speciali TV con l’immancabile ospite “io ve l’avevo detto” e foto-omaggi social col fioccone nero. Pure Techetecheté dedica la puntata a Genova, ci fa ascoltare “Ma se ghe pensu” cantata da Mina e “Cheuilla dunde t’è” da Gino Paoli. Per restare in tema di “dove sono andati i tempi d’una volta?”

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Bella schifezza il Ponte Morandi, architetto oggi maledetto, autore dell’opera che per anni abbiamo paragonato all’irraggiungibile Ponte di Brooklyn. Lo inaugurò il presidente della repubblica Saragat, in quell’epoca infame di edilizia mostruosa che ha spazzato via la casa di Paganini e via Madre di Dio, restituendo cemento capace di durare meno di ponti romani in pietra. Un’epoca che ha sdoganato la costruzione di edifici e la costrizione dei torrenti, lasciando dietro di sé metastasi di orrende palazzine sparse nelle vallecole inerpicate sui monti, i “bricchi“, come li chiamiamo noi.
Edilizia popolare per contenervi una popolazione proletaria che ha reso Genova una città grigia e industriale, destino perso dagli anni ’90.

Oggi, a fronte di un territorio ancora acerbo nell’accettare la sfida del turismo, tra pagine Facebook che inneggiano scherzose all’allontanamento dei “foresti” e la voglia di essere di più di “quella città dove c’è solo l’Acquario”, il crollo del Morandi dà la sveglia a un’Italia che “ex-post is megl che ex-ante”, dove la politica ha fallito tutto quello che poteva, dove è meglio vincere un’elezione e gozzovigliare qualche lustro, arraffare e scappare. L’Italia mafiosa che ha perso la speranza, dove piuttosto voto ignoranti e populisti e mi bevo la teoria che, bloccato un barcone a Lampedusa, tutto andrà meglio; dove chi ha governato prima per cinquant’anni, con laurea e cravatta, ha fatto schifo tanto quanto.

Un altro presidente, quello della Regione Liguria, ieri ha detto seraficamente che percorreva quel ponte tutti i giorni, come a dire che poteva succedere anche a lui, a farci percepire che è “uno de niatri“. Ci consoliamo?
Anche Papa Francesco l’avrà percorso nel 2017, o quantomeno ci sarà passato sotto per recarsi alla Madonna della Guardia, la regina di Genova: che magari esistesse davvero, scendesse dal monte con suo figlio e prendesse qualcuno a calci nelle natiche, più che porgere l’altra guancia. Forse se a cascare giù da 70 metri fosse stato un pontefice… o un presidente…

Ma assieme a presidenti e i papi, il Morandi l’hanno percorso milioni di liguri, di turisti tedeschi, di milanesi al mare, di camionisti, di medici che andavano a fare il turno in ospedale, di ragazzi a tarda notte dopo serata alle Erbe. Milioni di persone che non contano un ciufolo per la politica se non a ridosso del voto. Quel ponte siamo tutti noi, incoerenti, ipocriti, pigri e svogliati, che accettiamo la melma che ci circonda senza reagire, facciamo un po’ di manutenzione ogni tanto senza mai ricostruire, quando sapevamo tutti che il Morandi traballava ma facevamo finta di niente e speravamo solo di passarlo, segno della croce al volante e via. E il camion della Basko, a 3 metri dal baratro, sta lì a chiedersi quando penseremo che forse è meglio che in Italia bruciassero meno fabbriche e crollassero meno scuole, anche al costo di qualche scippo in più. Se lo dovrebbe chiedere anche chi dice che “lo faceva anche lui tutti i giorni”, quel ponte.

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E ora che si fa? Gli sciacalli politici sono già all’opera. C’è chi gongola e dice che la morte del “Morandi” è la prova divina che la “gronda” andava realizzata prima, c’è chi dice che però la buona notizia che rischiara la giornata sia stato bloccare una nave di migranti. Perché i ponti possono crollare, ma vuoi mettere bloccare 150 migranti contro 30 mortucoli. Non c’è confronto. Sento che i ponti restanti sono già più solidi ora che ci sono meno neri in giro.

Quanto tempo deve passare? Quando ci incazzeremo, smetteremo di fare condoni ed eleggere gondoni? Manca ancora tanto tempo, temo. Manca ancora qualche sisma, qualche cavalcavia che va giù. Qualche altra bara bianca zincata. Aspettiamo e ‘sto ponte facciamocelo rifare da Renzo Piano, cervello non fuggito, finché campa.
Si fa così, a Genova.

#PrayForGenoa? Le preghiere servono solo a scaricare responsabilità su altri. Io me ne sto sveglio ad aspettare che “muoia la speranza, maledetta stronza che non muore mai, mentre io vorrei dormire“.

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Pubblicato da Lorenzo Fabre

Lorenzo Fabre è un blogger e scrittore genovese. Il suo racconto d'esordio "La pillola" è pubblicato nell'antologia Continuum Hopper (Della Vigna), vincitrice del Premio Italia 2017. Fabre è anche tra i vincitori del Premio Racconti Liguri 2017 e si è classificato secondo al Premio G. Viviani 2017 per racconti fantasy. Recentemente ha pubblicato racconti di fantascienza nelle antologie Sarà sempre guerra e Futura Lex. Tra le sue passioni, oltre la scrittura, c'è anche la recitazione teatrale, la storia e la scherma storica medievale, i videogiochi “con bella trama”, le serie televisive avvincenti quali Game of Thrones, Black Sails, Breaking Bad e The Walking Dead, e le scienze, con particolare attenzione a quelle mediche e biologiche. Per ogni altra informazione il suo sito è http://lorenzofabre.com.

Una opinione su "Su quel ponte: cittadini, un presidente e il Papa. E ognuno di noi."

  1. imprecare e pregare non serve, forse sarebbe davvero ora di essere meno coglioni e non metterci sempre a novantagradi quando c’è vento di elezioni…chè poi quei gondoni sono pure bucati, sempre, tutti, e servono a un belino alla comunità, pensano solo a intascare denaro a più non posso finchè la poltrona gli sta incollata al culo….e intanto i poveracci continuano a farsi il segno della croce per passare un ponte…A sentirli parlare pare che tutti siano contriti di dolore, e poi come è capitato di ascoltare in intercettazione telefonica , i costruttori di malaffare ridono sulle disgrazie altrui su cui possono speculare in collusione con gli amici degli amici…le tragedie in Italia non hanno mai un responsabile, ma chiediamoci se a pensare sempre al destino, alla casualità stiamo bene…

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