
Che George Miller, regista di tutti e 4 i film di Mad Max usciti, abbia studiato medicina, lo si capisce da alcune delle scelte del suo nuovo pseudo-remake/reboot: Mad Max Fury Road. Difficile mescolare il genere post-atomico autostradale con donatori 0- universali, malati di linfoma che danno un soprannome ai propri linfonodi, pneumotoraci curati a coltellate e quant’altro. Eppure, lo ha fatto.
Quando negli anni ’80 il disegnatore Buronson e compagni crearono l’iconico personaggio di Ken il Guerriero, si ispirarono (anche nel look cuoio e spalline) a Mel Gibson, giovane attore australiano lanciato proprio da Miller con i primi 3 film della saga; egli si muoveva in un mondo devastato dalle radiazioni e ridotto ad un’età del ferro, dove il ferro è quello delle automobili, esattamente come faceva il divino successore della scuola di Hokuto.

Miller ha deciso di non fare proprio un remake o un reboot ma rivisitare la storia originale: arriva sullo schermo un inseguimento lungo 2 ore senza trama, pieno di auto truccate, sabbia del deserto e punk esaltati, in un cocktail di benzina e tamarreria veramente raro. Nel secondo e terzo film della saga, il budget e l’assenza della tecnologia digitale non avevano scoraggiato il regista. Miller qui si autocita più volte (avete notato il carillon, lo stesso di Mad Max 2? E le “terre verdi” come la “terra del domani-domani” originale?) e sostanzialmente si concede molta più ironia ma, ahimè, molta meno trama.
MMFR infatti, nonostante la nobilitante presenza di Charlize Theron (e la resurrezione di Megan Gale, scomparsa dai tempi della Ominitel) ha sostanzialmente due voluti difetti: l’assenza di una trama (completamente lineare) e… l’assenza di grossa recitazione o dialoghi curati, culminanti nei grugniti di Max per la prima ora di film. Tutto è abbozzato superficialmente: anche l’unica storia d’amore del film è liquidata in 5 minuti. Non c’è tempo per pensare e bisogna solo farsi stupire dagli stunt e dai paesaggi.
Eppure, MMFR è un bel film d’azione senza alcuna pretesa di volerci insegnare niente: è soltanto un quadro hard rock, con lo sfondo giallo del deserto della Namibia che però simula l’Australia post-atomica.
Chi entra in sala pensando di trovare altro, lasci ogni speranza: perché qui Miller ci mostra l’inferno dei dannati di Dante in salsa post-nucleare, senza poesia ma con cruda brutalità.