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Siamo giunti alla quarta e ultima parte dedicata alla medicina medievale genovese e oggi parleremo degli ospedali della Genova medievale, con cenni generali al sistema ospedaliero dal basso medioevo in poi. Se volete riprendere la prima parte sui medici, oppure la seconda sui chirurghi, la terza sulle terapie e i farmacisti, potete usare i link appositi. Buona lettura!
Il sistema ospedaliero medievale
A tracciare un quadro già complesso in partenza, dobbiamo scordarci l’esistenza di un qualsivoglia Sistema Sanitario Nazionale Medievale e dividere il millennio medievale in fasi. In un primo momento (fino circa alla Prima Crociata), si sviluppa il concetto di Ospizio-Ospedale.
L’ospizio-ospedale

L’ospedale era inteso sia come “xenodochio” destinato più che altro ai pellegrini e agli indigenti, che come “nosocomio“, luogo di ricovero per “i poveri di Cristo” sia che fossero malati o feriti che disperati, con rimando naturalmente al termine “ospitalità” che è radice comune. Fino all’anno mille la Chiesa ebbe un grande ruolo nell’organizzare in tutta Europa una rete di ospedaletti (formati da una o due casette collegate, massimo con due piani), soprattutto negli snodi viari e nei cammini di pellegrinaggio come Santiago o la via Francigena. Tali alberghi-ospizi-ospedali erano gestiti da ordini mendicanti monastici come i Benedettini, Domenicani, Francescani o i più bellicosi ordini guerrieri come i Cavalieri Ospitalieri che prendono il nome dalla loro vocazione assistenziale.
La malattia è anche la stanchezza del viaggio e il ristoro è guarigione. In tali luoghi di culto e ospitalità assieme, il viandante o il malato spesso coincidevano e potevano venire ristorati nel corpo (e nello spirito) per poi riprendere il viaggio (talvolta verso l’aldilà) oppure il ritorno alla propria vita da sano. L’assistenza agli infermi o ai pellegrini veniva offerta spesso gratuitamente (il malato poteva fare un’oblazione) ma il personale sanitario era molto diverso da quello odierno, come vedremo nella sezione apposita.
Gli ospedali monastici
La seconda fase inizia nell’XII secolo, dove gli ospedali diventano ampi e strutturati e dove si sposta l’attenzione più verso il malato e meno sul pellegrino. In questi centri i frati/suore guaritori includevano in loro stessi un po’ la figura del medico, del chirurgo, del barbiere, dell’infermiere, del paramedico, dell’O.S.S., del fisioterapista, del dietista/dietologo, del farmacista, dello psicologo (o meglio dovremmo dire “confessore”) e ogni altra specialità sanitaria.
Per mantenere in vita un ospedale (e soprattutto i suoi pazienti) ci volevano molti soldi: lasciti e donazioni erano il più forte contributo – insieme a qualche timido intervento comunale – e includevano anche interi immobili o strumenti per l’assistenza (es. letti e cuscini), per non parlare delle questue/elemosine raccolte dal personale ecclesiastico, fino alla crisi del ‘400. Alla fine del medioevo alcuni ospedali erano così messi male che a questuare venivano impiegati anche gli stessi pazienti!
La crisi del modello monastico
Verso la metà del 1200 inizia la terza fase, che culminerà nella riforma del Concilio di Vienne del 1311 e a Genova con la costruzione di Pammatone nel primo ‘400. La sanità ospedaliera, saldamente in mano ecclesiastica, entrò in una sorta di “crisi” in cui venne puntato il dito contro i rettori degli ospedali, rei di essere ormai troppo intrallazzati e di commettere abusi di natura anche economica (un rettore visse nell’ospedale genovese di S. Lazzaro con la propria amante, con la quale dilapidava i fondi ospedalieri…). La sanità diventò finalmente un importante affare di stato e iniziò a svilupparsi un concetto di salute pubblica che interessava molto i governanti. Comuni e regni decisero di affiancare a quella religiosa una progressiva laicizzazione della sanità, mantenendo un supporto meno ingente da parte degli ordini mendicanti. Questi ultimi furono in parte “responsabili”, attraverso la loro predicazione, di un movimento di riforma sanitaria che interessò l’Europa intera, un ritorno a precetti evangelici che prevedevano ampiamente l’assistenza gratuita degli infermi.
A dare il colpo di grazia alla sanità medievale furono le grandi epidemie di peste (e altri malanni) che flagellarono il ‘300 insieme a carestie e cambiamenti climatici. I governi si resero conto che città affollate e sporche, battute da schiere di vagabondi malati o denutriti liberi di muoversi erano fonti di contagio considerevoli e pertanto si posero l’obiettivo di circoscrivere in grandi centri ospedalieri tali miserabili, tanto che i ricchi continuarono a curarsi a casa mentre l’ospedale fu destinato per lo più ai meno abbienti, come se la povertà stessa fosse la malattia.
Questo cambiamento portò definitivamente in secondo piano il piccolo ospizio-ospedale dei pellegrini in luogo della costruzione di “policlinici” veri e propri, oppure dei nosocomi specializzati in malattie specifiche come i lazzaretti o i lebbrosari. Tali ospedali laici furono fondati da veri e propri benefattori mossi da spirito evangelico (… e ammanigliati con la politica). Questo processo portò a costruzioni e demolizioni di interi isolati in città per far posto a queste “città della salute”. Gli ordini religiosi rimasero gestori nell’ombra di tali strutture sanitarie: questo per via dei loro privilegi ecclesiastici come costruire cimiteri o luoghi di culto nel circondario dell’ospedale stesso, una imponente serie di sgravi fiscali ed esenzioni da imposte varie, o di essere giudicati da tribunali ecclesiastici e non civili.
Ma i frati non potevano essere amministratori senza violare i severi dogmi di povertà elaborati dai loro fondatori. Cercheranno il modo di farlo comunque attraverso confraternite o sotto-ordini affiliati ma che non possedevano gli stretti vincoli di aderenza zelota ai precetti evangelici (come il divieto di gestire denaro). Insomma: fatta la legge, trovato il direttore.
Non ultimo, con l’ascesa della borghesia artigiana, anche le corporazioni e le gilde si trovarono a imbastire ospedali appositi per i loro iscritti (per esempio, a Genova lo fecero i calzolai e la compagnia dei Caravana, oggi noti come “camalli” o scaricatori di porto).
Giunti alla fine del Medioevo, dunque, nelle grandi città erano presenti di solito almeno uno o due grandi ospedali in parte pubblici e in parte religiosi, diversi centri specialistici o luoghi di quarantena, medici e chirurghi/barbieri privati che operavano sui pazienti ambulatoriali e gli immancabili speziali a gestire le terapie farmacologiche.
Tutto il mondo rurale, come detto negli articoli precedenti, rimase per lo più isolato da questa assistenza e lasciato alla mercé di guaritori improvvisati, erboristi e “vetule” anziane, che curavano sul confine sottile tra stregoneria, misticismo e scienza empirica, mentre il mondo militare iniziava a scoprire l’utilità di avere medici e barbieri fissi al seguito dei Condottieri.
I pazienti e le cure

Qualsiasi persona “in difficoltà” – malato, viandante, orfano, vedova – poteva recarsi a chiedere aiuto negli ospedali e diventare “paziente”. Era anche possibile donare le proprie sostanze all’ospedale e diventare ospite ad vitam, come in un’odierna casa di riposo. Tutto questo purché l’afflitto si recasse nel nosocomio vicino alla sua parrocchia. Era infatti possibile ricevere porte in faccia per diverse ragioni: ad esempio non venivano ricoverati facilmente i cosiddetti “incurabili”: paralitici, mutilati, affetti da deformità, non-vedenti o lebbrosi, che dovevano recarsi in centri speciali apposta per loro. Come pure i forestieri (noi liguri non ci smentivamo mai neanche allora).
Viaggiatori e pellegrini venivano trattenuti di solito non più di 1-3 giorni prima di essere rispediti sul loro cammino. L’alimentazione era molto importante nella cura delle malattie e sappiamo che i pazienti erano nutriti spesso meglio che a casa (pur seguendo le folli diete ippocratico-galeniche di cui vi ho già parlato). L’igiene era sicuramente migliore in ospedale che tra le mura domestiche: il paziente veniva lavato – a volte con bagni alle erbe che oggi solo in una spa potremmo trovare – e le lenzuola cambiate spesso (i cittadini poveri non avevano nemmeno quelle e dormivano direttamente sulla paglia, infestata da insetti).
L’arredamento era adeguato alle necessità di cura, essenziale ma pratico, con piccoli comfort come cuscini di piuma o lenzuola di tela. Attorno all’ospedale poteva sorgere un giardino con frutteto e l’immancabile erbario dove attingere per preparare i farmaci. Gli ospedali non erano però alberghi a cinque stelle: il paziente si spogliava di ogni bene, indossava un camicione o restava nudo nelle lenzuola e non di rado ci si trovava a condividere il letto (non la stanza: proprio il letto!) con un altro paziente dello stesso sesso. Solo i casi gravi venivano isolati.
Il personale sanitario ospedaliero
Che il mondo ecclesiastico avesse un ruolo cardine nella cura della persona non stupisce. Ancora meno se si considera che la malattia poteva essere considerata una “messa alla prova” da parte di Dio, come per il povero Giobbe.
A reggere l’ospedale religioso era il rector o hospitalarius (vengono usati molti altri termini), in genere di nomina vescovile o capitolare oppure dal Gran Maestro per gli ordini cavallereschi come Templari, Ospitalieri ecc. La nomina del “direttore” dell’ospedale laico spettava invece al fondatore o agli eredi (una sorta di direttori amministrativi odierni), ma quasi sempre con il timbro del vescovo. Al rettore veniva imposto un abbigliamento clericale anche se fosse stato laico, e di farsi la tonsura (i capelli a ciambella, per capirci). Tale ruolo poteva essere a vita (specie se il rettore donava ogni suo bene all’ospedale) o a mandato temporaneo. Come aiutanti del direttore potremmo immaginare un enorme schiera di uomini e donne non-propriamente-medici, ovvero semplici frati/suore retribuiti “a provvigione” dalla Chiesa o dai donatori, oppure conversi pagati (laici che prestavano servizio religioso) e quanto altro, con conoscenze sanitarie variegate. Esistevano poi numerosi servi (con basso salario) a cui erano affidati compiti umili e che, in vecchiaia, potevano restare ospiti fino alla morte.
L’assistenza gratuita monastica non prevedeva la richiesta di onorario ma la spesa sanitaria cresceva come la necessità di ricorrere a professionisti esterni che avevano studiato. Quando i frati avevano provato tutto con preghiere e arti, v’era sempre la possibilità di tapparsi il naso e chiamare medici “privati” a pagamento per farli intervenire (oggi la chiameremo intramoenia). La cosa era particolarmente gradita se il medico avesse rinunciato all’onorario “pro bono” del paziente e di Dio, e ciò talvolta accadeva. Ma se è vero che la pubblicità è l’anima del commercio, avveniva anche per garantirsi una futura base-pazienti da curare poi privatamente (e a pagamento) una volta che fosse stata dimessi dagli ospedali, per non menzionare la possibilità di “far pratica”, anche se le leggi verso i medici che cagionavano danni ai pazienti esistevano ed erano severe.
Diversi sanitari medievali, nei loro scritti, si raccomandano di curare le persone a prescindere dal censo e dalla “dichiarazione dei redditi” in quanto buoni cristiani, riservandosi poi – ma questo non lo scrivono, lo capiamo noi dagli atti – di spremere adeguatamente i pazienti ricchi, come avete letto negli articoli precedenti. Dal 1300 entrano a far parte dei consulenti esterni anche i barbieri/chirurghi, fino a essere chiamati come personale stipendiato fisso; questo accadde poi anche per i medici, a volte con richiesta di stipendio alla Repubblica di Genova stessa.
La rete ospedaliera della Genova Medievale

Veniamo finalmente a ciò che accadeva nella Compagna Communis a partire dal 1100 (per le epoche precedenti mancano fonti attendibili). Attraverso il bel saggio di Marchesani e Sperati (v. bibliografia), sappiamo che gli ospedali genovesi nel basso medioevo erano circa trenta, fino a ridursi a una ventina alla fine del ‘300. Pur non raggiungendo dimensioni imponenti, erano comunque abbastanza ampi e strutturati, quasi sempre su due piani. Per lo più erano composti da due sale di degenza, dette infirmarie (una per i maschi, l’altra per le femmine), da una cucina, da due o tre piccole stanze e, a volte, da una sala per riunioni o refettorio. In genere presentavano una dozzina di posti letto (come una singola corsia di un medio ospedale odierno) e naturalmente la cappella.
Topograficamente, possiamo distinguere alcune “aree ospedaliere” con una densità maggiore di nosocomi:
- zona di Castello
- zona dell’abbazia di Santo Stefano (attuale via XX Settembre)
- zona Maddalena fino a Castelletto
- zona Pré
Per i dettagli sui singoli ospedali, vi rimando volentieri alla pubblicazione già citata (scaricabile liberamente dalla Società Ligure di Storia Patria), mentre è opportuno citare qui almeno i centri principali.
1. Il complesso della Commenda di Pré
Messo in piedi nel XII secolo, sorse dopo le primissime crociate per opera dei Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme, ordine monastico-guerriero con la sua tunica nera (poi rossa) e croce bianca, oggi noto come Ordine di Malta. Più oculati dei loro fratelli templari (che a Genova avevano una chiesa di fronte a Porta dei Vacca) i “giovanniti” furono un ordine stimato e riverito sia per le doti belliche che per quelle assistenziali.
Le “commende” erano veri e propri quartieri generali dell’ordine retti da un Comandante (commendatore) e S. Giovanni di Pré non faceva eccezione. Tale ospedale rappresentava un centro importante anche perché posto in un importante snodo costiero per i pellegrini in viaggio verso la Terrasanta, e infatti comprendeva anche un monastero per i cavalieri e i frati. Circa nel 1180, per opera di Fra’ Guglielmo, iniziò l’edificazione di una nuova chiesa ancora oggi in funzione, attorno alle strutture ricettive già esistenti.

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Se è vero che tra il personale sanitario vi fu anche un santo – Ugo Canefri – di certo non è fantasia immaginare l’ospedale di Pré come un fiore all’occhiello per la sanità medievale ligure, forse anche per l’immunità politica degli Ospitalieri dal Comune e persino dal vescovo di Genova, più un’invidiabile serie di privilegi e sgravi fiscali, oltre alle ricche donazioni e ai terreni amministrati dall’Ordine.
Nell’ospedale venivano convocati medici esterni, come sopra, ma c’erano anche “confratres” medici che prestavano il loro servizio fisso, configurando di sicuro un’assistenza medica di livello (compatibilmente con la mezza-follia della medicina medievale…) che comprendeva una dieta ricca e l’esposizione all’aria di mare (dovete immaginare, infatti, la Commenda con le sue arcate poste direttamente sulla spiaggia!)
Cavalieri e frati, con una certa presenza anche femminile, si alternavano nella cura dei malati assieme ai già citati “confratres”, ovvero conversi e servitori laici, onorando i pazienti e chiamandoli “miei signori”. La presenza femminile è attestata nel limitrofo monastero di S. Leonardo, con tanto di badessa e giovani rampolle che prendevano i voti o diventavano consorelle.
Tutto meraviglioso? Sì, fino alla fine del ‘300, specchio della crisi dello stesso ordine Ospitaliero, ormai scacciato dalla Terrasanta. Dopo l’avvento del già ipercitato Pammatone, la Commenda tornò ad essere unicamente ricovero per i pellegrini.
2. il Lebbrosario di S. Lazzaro
Nel 1153 circa, un benefattore di nome Bonmartino decise di dedicare ai lebbrosi un centro apposito: il lebbrosario di S. Lazzaro, costruito presso capo di faro (oggi San Benigno, la zona della Lanterna); in cambio, ricevette il titolo di rettore a vita e vitto e alloggio per sé e la famiglia. Sulla scelta del nome Lazzaro va notato che vi fu confusione già nel medioevo tra due figure omonime citate nella bibbia (il famoso resuscitato da Gesù, infatti, non era lebbroso). La lebbra nel medioevo veniva vista come una vera e propria maledizione divina, tanto che spesso gli affetti dall’infezione venivano chiamati con sinonimi quali “miseri” o “infermi”, pur di non citare il nome della patologia. Assistere questi reietti della società era dunque un segno di carità che poneva il “caregiver” come figura vicinissima al Cristo.
L’istituto sorse non senza fatica per le “gelosie” della parrocchia limitrofa. I lebbrosi di questo centro, che poteva ospitare al massimo 50 persone incluso il personale, non erano solo dei malati ma anzi partecipavano alla vita ospedaliera e avevano potere di voto sulle disposizioni. Questo era un esempio di ospedale-comunità, una maniera quasi monastica di gestione e in parte carceraria, dato che ai lebbrosi non era concesso di girare liberamente in città (e comunque farlo segnalando la presenza con una “raganella” di legno). Naturalmente, si sostentava con donazioni ed elemosine.
Una volta entrati nel centro, i beni del lebbroso diventavano patrimonio comunitario. Si istituiva una triste cerimonia di “morte civile” in cui:
“Il lebbroso veniva spogliato dei suoi abiti, rivestito di un saio, e il suo capo veniva cosparso con terra di cimitero, per significare la sua morte al mondo e, dopo la benedizione e la consegna della raganella (strumento che generava un suono di allarme, NdR), della ciotola e dei guanti, che servivano a evitare qualsiasi contatto con le persone sane, veniva accompagnato alla sua cella, dopodiché le porte della domus venivano definitivamente chiuse. Egli non le avrebbe più oltrepassate, se non in rare e brevi occasioni.”
Marchesani C., Sperati G., (1981) “Ospedali Genovesi nel Medioevo”, Atti della Società Ligure di storia patria
Il centro di S. Lazzaro appariva molto ben regolamentato per circoscrivere il contagio, con norme igieniche che varrebbero ancora oggi (ogni infermo poteva toccare e usare solo la propria roba, non doveva entrare in contatto coi sani e tantomeno toccare oggetti che poi sarebbero stati traslati all’esterno). Durissime le pene contro la blasfemia o gli atti violenti o il furto, mentre era proibito ai degenti ogni rapporto con l’altro sesso, anche verbale.
A portare sollievo ai poveri lebbrosi ci pensavano le Confraternite che una o due volte l’anno preparavano per loro doni o banchetti.
4. Sei foresto? Allora vai nel tuo ospedale!
Oggi fa sorridere (e incavolarsi) parlare di ospitalità ligure nei confronti dei turisti, vessati spesso da scontrosi esercenti ma pure dalla popolazione autoctona (che comunque si autovessa per par condicio), e le radici di questo malanimo si possono trovare già nella sanità medievale. Per chi fosse stato straniero a Genova, infatti, era stato istituito un ospedale apposito per i forestieri. Genova porto di mare e sede di guerra (e quindi mercenari) riceveva maestranze e mercanti da ovunque ma, una volta ammalati, essi venivano trattati in malomodo e sospetto, non fosse altro che per la barriera linguistica: in città si parlava una vulgata che era del tutto diversa da quella di Firenze o Milano, per non dire quanto fosse complesso per chi non proveniva da zone di lingue romanze come la Baviera o altro.
Fermi tutti, però: ciò avveniva anche in altre città italiane, per cui un genovese a Roma preferiva comunque farsi assistere da altri genovesi. Dunque nella Superba, quattro nuclei etnici (milanesi, romani, francesi e tedeschi) formarono quindi una consorteria dei forestieri a fine ‘300, che aprì un ospedale vicino alla chiesa dei Servi (oggi distrutta, siamo in zona Piazza Dante). Per questa assistenza era richiesta una quota associativa alla consorteria, ma nel 1400 vediamo già che qualche iscritto faceva il furbo e sottraeva risorse al fondo comune, ad esempio facendo dimorare anche i suoi parenti e amici: per ovviare a questo, al ricoverato fu in seguito imposto di lasciare i suoi beni “in ostaggio”.
5. Un esempio di branding: S. Antonio
Oggi per “fuoco di sant’Antonio” si intende una riesacerbazione del virus della Varicella-Zoster che causa bolle dolorose disposte sul decorso di un nervo. Anticamente però, con questo termine si parlava di un “fuoco sacro” dovuto alla famigerata intossicazione da segale cornuta, dovuta a un fungo (ergot) che affliggeva le granaglie e che causava orribili manifestazioni di dolore urente, ovvero quello tipico delle ustioni. Sant’Antonio divenne protettore di tali ammalati e quindi perché non dedicargli un ospedale situato presso la chiesa omonima in zona Pré?
Sant’Antonio è sempre stato venerato con dedizione dai cattolici e le donazioni a suo nome erano quindi ingenti. I monaci lerinensi titolari dell’ospedale non ebbero vita facile, in quanto il santo era un vero e proprio brand di successo, tanto che l’ordine di S. Antonio a Vienne andò da quello genovese a chiedere una sorta di esclusiva sul marchio e quindi pretese le “royalties”, scomodando anche i papi di Avignone. Alla fine la spuntarono i lerinensi liguri ma i francesi non si arresero e tentarono di aprire un ospedale rivale proprio lì vicino, fino a che papa Urbano V non diede l’esclusiva finale ai lerinensi, tirando le orecchie ai suoi stessi conterranei transalpini. L’ordine tenne banco fino al 1500, secolo in cui l’ospedale venne abbandonato per i motivi di crisi già citati.
La raccolta delle offerte, saldamente in mano ligure, proseguì anche con cassette delle elemosina situate in luoghi strategici della città, con testimonianze anche di qualche frate che si lasciava prendere la mano (e magari scivolare nella manica qualche moneta?). E perché non sfruttare il marchio ulteriormente allevando e lasciando circolare liberamente dei porci marchiati ad hoc per il borgo, per poi macellarli il giorno di Sant’Antonio e venderne le carni? La cosa provocò anche buffi incidenti quando un senatore genovese fu travolto da un branco di maiali alla presenza del Doge, e per la figuraccia fu per un certo tempo proibito all’ospedale tale pratica.
Si arriva all’estremo, ricordando nella chiesa veniva custodito un ipotetico cranio del Santo e una cassa di arti amputati e segnati dalle ustioni “sacre” veniva esposta dai religiosi nelle feste come monito di devozione verso il Santo, che avrebbe dovuto proteggere da tali lesioni.
Pammatone e l’Ospedale degli Incurabili: i grandi nosocomi e la facoltà di Medicina
Terminato il concetto di ospitalità capillare sul territorio, nel ‘400-‘500 assistiamo alla costruzione di due grandi ospedali.
Fondato nel 1422 come Ospedale di S. Maria della Misericordia dal giureconsulto Bartolomeo Bosco, filantropo, l’ospedale noto come Pammatone fu costruito nell’odierno quartiere di Portoria, ai tempi campo di addestramento per le milizie genovesi, inclusi i famigerati balestrieri che si allenavano presso la Porta dell’Olivella. L’attività ospedaliera si concentrava sulle fasce deboli della società: malati e bisognosi (orfani ecc.), con una forma di governo mista laico-religiosa. Bosco inizialmente aprì un ospedale femminile (il cui governo fu lasciato poi a moglie e figlia) unendo tre case di vico Pammatone e, alcuni anni più tardi, istituì la carica dei “protettori” a cui affidò il governo del nosocomio. Dal 1429 iniziò a costruire anche un’infermeria maschile (che non vide terminata da vivo), approfittando di donazioni in denaro e immobiliari; non di rado gli fu offerto l’intero patrimonio della persona, unito all’impegno a prestare servizio a vita nel nuovo ospedale! Inizialmente, Pammatone si resse solo su patrimoni privati, nonostante le richieste di Bosco al Comune di Genova, che versava in cattive acque già da inizio secolo, schiacciato tra Francia e la signoria di Milano. Dopo aver lasciato disposizioni in modo che i suoi beni passassero in minima parte agli eredi e il grosso all’ospedale, morì in data imprecisata dopo il 1432.

Il personale di Pammatone doveva devolvere ogni bene alla comunità ospedaliera ed era diviso in sacerdoti, cappellani e chierici con compiti spirituali, un “infermiere” (con il senso odierno di Capo Sala) che coordinava i “custodi” (infermieri veri e propri), lo speziale responsabile della spezieria (e dell’orto dove coltivare “i semplici”) e poi un sottobosco variegato di conversi/oblati laici che offrivano a vita il loro servizio e “servigiali“, veri e propri servitori dalle umili mansioni (facilmente indigenti che si offrivano di lavorare per il solo vitto e alloggio). Tutti dovevano portare l’uniforme dell’ospedale, di panno umile con croce celeste e, inizialmente, potevano uscire solo con esplicito permesso. La direzione amministrativa comprendeva il Rettore, il Camerario con funzioni di economato, il Notaio, il Sacrista, il Massaro che funzionava da cassiere e il Gastaldo, ovvero l’avvocato dell’ospedale. Il personale medico invece era formato da liberi professionisti pagati che prestavano assistenza due volte al giorno (il medico di guardia sarà istituito solo dal ‘600) e senza i vincoli religiosi di cui sopra. Stessa cosa per i chirurghi, distinti in “Cerusico Principale et altri inferiori” I pellegrini erano benvenuti ma solo per tre giorni e gli “incurabili” (v. in seguito) respinti in gran numero.
Altro gravissimo problema fu quello degli “esposti“: il numero di trovatelli abbandonati presso l’ospedale era così alto che Pammatone spendeva una fortuna per pagare nutrici e per prodigarsi nel maritare le fanciulle cresciute fino all’età da marito, tanto da spingere il personale ospedaliero a protestare varie volte e costringere il comune a multe, fustigazioni e tassazioni qualora in casa vi fosse una gravidanza indesiderata, non di rado dovuta alla liaison “padrone-servetta”. Deterrenti che non furono efficaci.
Pammatone fu l’ospedale maggiore di Genova fino alla costruzione del Galliera prima e del San Martino poi. Tale onere venne sancito ufficialmente da Roma. Nel 1471, infatti, una bolla papale di Sisto IV diede indicazione di incorporare verso Pammatone le attività di “ospedale maggiore”, portando alla chiusura di molti altri istituti (non senza proteste) e di fatto segnando la fine dell’ospedalità medievale. L’importanza di Pammatone è anche quella di avere dato sede ai medici genovesi di un centro di sapere accademico che si concretizzerà nella prima vera scuola di medicina della Repubblica. Dato che Sisto IV era (di Celle) ligure, l’anno 1471 è anche quello in cui di fatto si può finalmente parlare per la prima volta di “laurea” medica a Genova. Concessione che il pontefice fece proprio al Collegio dei Medici di Genova che finalmente potevano conferire lauree in medicina, poi tutto ratificato anche dal Sacro Romano Imperatore Massimiliano I d’Asburgo, circa quarant’anni dopo. Questa bolla non significa che da lì a un giorno sarebbe stato costruito un corso di laurea strutturato tale da rivaleggiare con Padova o Bologna: la laurea era ovviamente conferita dopo attenta valutazione del Collegio ma il “candidato” poteva rendersi edotto della materia altrove o in studi privati. Tale processo di creazione di un ateneo fu lungo e richiese l’intervento di molte altre figure che esulano questa trattazione, ma di una dovremmo davvero parlarne, perché aprì un altro importantissimo centro.
Fondato nel 1500, l‘ospedale degli incurabili, ovvero il “Ridotto” o “l’Ospedaletto” di Ettore Vernazza, filantropo notaio già seguace di Santa Caterina Fieschi Adorno (la “primaria” della medicina femminile del Pammatone di fine ‘400), rispondeva a tutte quelle esigenze che né Pammatone né i lebbrosari potevano soddisfare: la cura delle malattie croniche. Esse costituiscono oggi probabilmente la maggior parte dell’attività medica, ma ai tempi venivano viste come vere e proprie maledizioni divine, tanto che i malati incurabili meno abbienti venivano respinti in malomodo una volta che si fossero presentati alla porta di un ospedale “normale”. Per malattie incurabili trattate in questo nosocomio non intendiamo soltanto quelle odierne (tumori o malattie autoimmuni), ma anche le deformità o le infezioni croniche come la sifilide (mentre la lebbra riceveva attenzione a parte, come già detto), e in epoca barocca furono ammesse anche le demenze e le malattie mentali. Vernazza non ebbe vita facile all’inizio, in quanto l’Ospedaletto sorse proprio di fronte a Pammatone dove gli incurabili erano respinti a pedate (al massimo tre potevano essere ricoverati nello stesso momento) e grazie all’intervento di altri notabili, la stessa Repubblica si convinse che era meglio concentrare tutti gli infermi in quel grosso “quartiere della Salute” che era divenuto il rione di Portoria, vista anche la presenza di numerosi conventi vicini (e quindi di manodopera low-cost; siamo pur sempre a Zena).

Vernazza fu comunque visto come un innovatore; fondando la confraternita del Divino Amore e del Mandilletto (per l’assistenza di malati e poveri rispettivamente), aprì ospedali del genere in tutta Italia. Fu probabilmente suo il merito di organizzare anche una prima embrionale scuola medica genovese nel primo decennio del ‘500, ma l’assenza di documenti (e un brutto incendio avvenuto proprio a Pammatone nel ‘700) non ci consentono certezza: viene riportato, da un testo di Isnardi sulla storia dell’Università di Genova, che egli probabilmente consentì di aprire tramite lascito testamentario quattro cattedre di Medicina presso l’ospedale, nella prima metà del 1500. Finalmente, Genova aveva la sua facoltà di Medicina.
La fine
Pammatone e il “ridotto” rimasero i principali ospedali cittadini per cinque secoli, fino alla costruzione ottocentesca del Galliera e poi del San Martino negli anni ’10 del ‘900. Gli ospedali di Portoria furono distrutti durante la seconda guerra mondiale e sottoposti a “violenza” insieme a tutto il quartiere durante il controverso ammodernamento – iniziato nei primi anni ’60 – di Piccapietra/Piazza Dante/Via Madre di Dio (una vera vergogna per Genova, cantata tristemente da Gino Pesce in “piccon daghe cianin“) e furono definitivamente sostituiti dal Policlinico San Martino. Oggi rimane solo il Chiostro di Pammattone, inglobato ma ancora visibile nel Tribunale di Genova.
Con questo articolo si conclude la nostra rassegna sulla medicina medievale genovese. Condividete ad libitum e grazie per la lettura! 🙂
Bibliografia essenziale
- Balletto, L., (1986) “Medici e Farmaci, scongiuri e incantesimi, dieta e gastronomia nel medioevo genovese”, Collana storica di fonti e studi
- Caneva, G., (1977) “L’arte degli speziali sulle galee genovesi”, La Casana
- Cosmacini, G., (2003) “La vita nelle mani: Storia della chirurgia”, Laterza
- Cosmacini, G., (2011) “L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi”, Laterza
- Hryszko, R., (2021) “Le radici medievali della Confetteria Italiana”, Uniwersytet Jagielloński Instytut Historii
- Isnardi, L., (1861) “Storia dell’Università di Genova”, Tipografia dei sordomuti
- Marchesani C., Sperati G., (1981) “Ospedali Genovesi nel Medioevo”, Atti della Società Ligure di storia patria
- Palmero, G., (2007) “Ars medica e terapeutica alla fine del Medioevo. Il caso genovese”, Nuova rivista storica
- Pesce, G., (1951) “I medici di bordo ai tempi di Cristoforo Colombo” Civico Istituto Colombiano
- Taddia E., (2009) “CORPI, CADAVERI, CHIRURGHI STRANIERI E CEROPLASTICHE: L’OSPEDALE DI PAMMATONE A GENOVA TRA SEI E SETTECENTO” Mediterranea Ricerche storiche




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