Inkarnate vs. Dungeon Alchemist: la sfida dei due map-maker

Le mappe nei GdR

Col proliferare dei VTT (Virtual TableTop) come Roll20 o Foundry, i Game Master si trovano spesso a voler creare coloratissime e dettagliatissime mappe per i loro player. Oggi vi parlerò di due strumenti a pagamento tra i più popolari, che uso per le mie mappe: Inkarnate e Dungeon Alchemist, due piattaforme che, sebbene servano allo stesso scopo fondamentale, offrono approcci e funzionalità radicalmente diversi.

Per entrambi esiste una demo gratuita, per cui… provateli!

Inkarnate: la pennellata del Master

Inkarnate è una piattaforma di map-making basata sul web, amata per la sua versatilità e il suo stile artistico distintivo. È uno strumento che si rivolge a chi ama avere il pieno controllo creativo su ogni dettaglio della propria mappa, che si tratti di un’epica mappa del mondo, o un tetro dungeon, senza rinunciare a facilitazioni.

Punti di Forza:

  • Versatilità Ineguagliabile: Il più grande vantaggio di Inkarnate è la sua capacità di creare una vasta gamma di tipi di mappe. Mappe del mondo, regionali, isometriche, in stile pergamena, mappe cyberpunk o fantasy, fino alle mappe di intere città o di battaglia viste dall’alto, con migliaia di asset da usare.
  • Stile Distintivo: Le mappe create con Inkarnate hanno un’estetica facilmente riconoscibile e affascinante. Allenando l’occhio, riconoscerete subito una mappa fatta con questo tool, e non è affatto un male!
  • Controllo Creativo Totale: Con Inkarnate, il disegnatore ha il controllo totale. Ogni elemento può essere posizionato, ridimensionato, ruotato e colorato individualmente. Questo livello di controllo permette di dare vita a mappe uniche e personalizzate, ricche di dettagli narrativi. Se ci si accontenta di un muro, un tavolo e due sedie, si fa presto.
  • Modello Freemium: Inkarnate offre una preview gratuita che, sebbene limitata nel numero di asset e nella risoluzione di esportazione, è più che sufficiente per iniziare e farsi un’idea delle potenzialità dello strumento. La versione Pro, disponibile con un abbonamento mensile o annuale (25$ l’anno, al momento in cui scrivo), sblocca l’intera libreria di asset e funzionalità avanzate.
  • Accesso al loro database: l’abbonamento consente di scaricare tutte le mappe pubblicate dagli autori, che sono centinaia (e editarle, se l’autore ha dato il permesso) e di caricare le proprie!

Punti di Debolezza:

  • Curva di Apprendimento: Sebbene sia più facile da usare rispetto a software di grafica professionale, ottenere il massimo da Inkarnate richiede tempo e pratica. Tuttavia, la curva di apprendimento per realizzare mappe bellissime con effetti di luce e ombre, è abbastanza ripida e richiede parecchie ore di applicazione, specie se siete indecisi o perfezionisti. Il rischio è quello di realizzare cose davvero semplici e fattibili con altri tool gratuiti, o non particolarmente appaganti da vedere. Per questo, consiglio assolutamente la prova gratuita prima di abbonarvi, o di provare con un mese solo (a 5$).
  • Niente automatismi: Sebbene sia possibile creare mappe di battaglia super dettagliate, il processo non è per nulla automatizzato come in altri strumenti specifici: attualmente si può solo generare un continente casuale per le world-map, ma null’altro.
Una mappa top-down realizzata con Inkarnate, dal sito ufficiale inkarnate.com

Dungeon Alchemist: La Magia dell’Intelligenza Artificiale

Dungeon Alchemist è un software stand-alone disponibile su Steam, attualmente ad accesso anticipato, che ha rivoluzionato il modo di creare mappe di battaglia grazie al suo innovativo utilizzo dell’intelligenza artificiale. È lo strumento ideale per i master che hanno bisogno di mappe dettagliate e immersive in tempi record. In pratica, vi basta tracciare la stanza che volete creare e la vedrete magicamente creata!

Punti di Forza:

  • Creazione di Mappe Istantanea: Il cuore di Dungeon Alchemist è il suo generatore di mappe basato sull’IA. Disegna semplicemente la forma di una stanza e il software la popolerà automaticamente con pareti, porte, mobili, illuminazione e oggetti di scena pertinenti al tema che hai scelto. Quello che richiederebbe ore in altri programmi, qui si ottiene in pochi secondi. A differenza di Inkarnate, non dovrete disegnare a mano le ombre!
  • Qualità Visiva 3D Carina: Dungeon Alchemist crea mappe in un ambiente 3D, offrendo una resa visiva di buona qualità, diciamo un po’ in stile “gioco della Switch”. Questo non solo rende le mappe sufficientemente belle da vedere, ma permette anche di visualizzare l’ambiente da diverse angolazioni e prospettive e fare screenshot in 3d da mostrare ai vostri giocatori insieme alla mappa dall’alto. Inoltre, la mappa vista dall’alto potrà far scorgere ai giocatori anche il colore dei muri, cosa impossibile su Inkarnate dove c’è un effetto “piatto” in quasi tutte le mappe. Tuttavia, la definizione delle pareti e di alcuni asset di Inkarnate, resta superiore, come pure la varietà delle stanze
  • Integrazione con i Virtual Tabletops (VTT): Le mappe create con Dungeon Alchemist possono essere facilmente esportate per l’uso in popolari VTT come Foundry VTT e Roll20, con tanto di muri e luci già configurati, un enorme risparmio di tempo per i master che giocano online, ma ATTENZIONE: per Roll20, ad esempio, è richiesta la versione PRO, altrimenti non sarà possibile esportare direttamente in questo modo.
  • Acquisto Unico: A differenza di Inkarnate, Dungeon Alchemist non è un servizio in abbonamento. Si paga una volta sola (attualmente circa 38€) per avere accesso a tutte le funzionalità presenti e future. Con la stessa cifra, Inkarnate vi darebbe grossomodo un anno e mezzo di abbonamento.
  • Mappe multilivello: Con l’aggiornamento dell’estate 2025, è possibile creare facilmente mappe di dungeon o edifici su più livelli, con ombre e luci perfette ed esportabili in un click!
  • Asset creati dalla community: Non trovi quell’albero o quel tetto che vuoi? Hai la possibilità di scaricare nuovi asset creati dagli utenti, direttamente dal software!

Punti di Debolezza:

  • PC performante: usare Dungeon Alchemist richiede un PC con una scheda video, RAM e processore decente, oppure andrà lentissimo. Le specifiche sono sulla loro pagina, vi consiglio caldamente di provare la demo gratuita per vedere se il vostro computer ce la fa.
  • Resa visiva più “videogame-style”: Le mappe viste dall’alto esportate sono meno “fumettose” di quelle di Inkarnate: sembrano più lo screenshot di un gioco e in qualche caso sono più confuse per via dell’illuminazione.
  • Meno Versatile: Dungeon Alchemist eccelle nella creazione di mappe di battaglia e interni, ma non è pensato per la creazione di mappe del mondo o regionali su larga scala. Le mappe più grandi di 100×100 quadretti soffrono di bug o rallentamenti, nel caso il vostro computer non sia performante.
  • Meno Controllo Artistico: Sebbene sia possibile personalizzare gli ambienti generati dall’IA, il controllo creativo non è così granulare come in Inkarnate e gli asset sono in numero inferiore. Lo stile è in gran parte dettato dal software.
  • Niente mappe del mondo o mappe fantascientifiche: Dungeon Alchemist è pensato per piccole mappe di ambienti all’aperto o dungeon, non è assolutamente possibile fare la mappa di una regione o di un mondo. Inoltre, gli asset sono solo fantasy/medievali, mentre Inkarnate ha anche una discreta collezione di asset fantascientifici/cyberpunk.
Una mappa di un tempio nella giungla fatta con Dungeon Alchemist, completamente ruotabile in 3d.

Faccia a Faccia: Un Confronto Diretto

CaratteristicaINKARNATEDUNGEON ALCHEMIST
Tipo di PiattaformaBasato sul webSoftware stand-alone (Steam)
Modello di PrezzoFreemium con abbonamento ProAcquisto unico
Tipi di Mappe PrincipaliMappe del mondo, regionali, città, dungeon ecc.Mappe di battaglia, dungeon, edifici, grotte
Flusso di LavoroManuale e artistico, con ottimo controllo utenteGuidato dall’IA e customizzabile in seguito
Controllo CreativoElevato, controllo su ogni dettaglioModerato, personalizzazione di elementi generati
Qualità Visiva2D artistico “piatto”3D realistico e immersivo
Facilità d’UsoCurva di apprendimento non da pocoEstremamente facile per risultati rapidi
Integrazione VTTEsportazione di immagini 2DPossibilità di multilivello e integrata con VTT

Chi Dovrebbe Scegliere Inkarnate?

Inkarnate è la scelta perfetta per:

  • Worldbuilder e scrittori: Coloro che hanno bisogno di creare mappe del mondo e regionali dettagliate e stilisticamente coerenti.
  • Artisti e creativi “ossessivi”: Chi ama avere il pieno controllo su ogni aspetto della propria creazione e vuole sviluppare uno stile unico.
  • Master con tanta passione a disposizione: Chi preferisce dedicare tempo alla creazione di mappe personalizzate e non ha la necessità di produrre mappe di battaglia in tempi stretti.

Chi Dovrebbe Scegliere Dungeon Alchemist?

Dungeon Alchemist è l’ideale per:

  • Master con pochissimo tempo e/o giocatori poco esigenti: La sua capacità di generare mappe di alta qualità in pochi minuti è un vero e proprio salvavita per chi ha sessioni di gioco ripetute.
  • Chi privilegia la funzionalità: Per chi ha bisogno di mappe di battaglia funzionali e immersive senza doversi perdere nei dettagli della creazione artistica.
  • Illuminazione già calcolata: Chi non vuole perder tempo a disegnare a mano le ombre…

Quale preferisco io?

Uso Inkarnate da circa un anno e mezzo, mentre ho acquistato Dungeon Alchemist da un mese. Per la creazione di una campagna e di un mondo, Inkarnate non si batte. Tuttavia, la velocità iperspaziale nel creare una mappa di battaglia decente da vedere con Dungeon Alchemist, ultimamente mi sta conquistando.

Personalmente, alla scadenza dell’abbonamento di Inkarnate farò dei rinnovi solo mensili a prezzo contenuto per crearmi le mappe delle città e del mondo che mi servono una tantum, oppure per creare delle mappe di battaglia particolarmente grandi, mentre userò Dungeon Alchemist per le esigenze più standard (che sono l’80% delle mappe che mi servono), senza dover pagare di più.

Valuta le tue priorità: hai bisogno di un controllo artistico totale per le tue mappe del mondo o di una generazione rapidissima di mappe di battaglia immersive? La tua risposta a questa domanda ti guiderà.

Per la revisione e stesura di questo post, sono stati usati strumenti di Intelligenza Artificiale. Le immagini sono prese dai rispettivi siti dei due software.

Risorse imperdibili per Dungeons & Dragons (D&D)

Dopo vent’anni, può tornare la voglia di lanciare un d20 e riprendere Dungeons & Dragons, nella sua ultima edizione: la quinta. La mancanza di tempo e di giocatori vicini mi ha spinto a giocare online con amici a D&D come Dungeon Master (DM), e devo dire che ne sono molto soddisfatto! Ecco alcuni consigli e risorse utili per iniziare.

Due parole sulla quinta edizione (5e)

Per chi era abituato al primissimo BECMI e all’Advanced (1e/2e), la 5e può essere impegnativa da approcciare. Vediamo i pro e i contro della nuova edizione, ovviamente secondo me:

Manuali base

La 5e è nata nel 2014 ed è stata aggiornata nel 2024 con una nuova edizione che introduce cambiamenti significativi, che vedremo in un post futuro. Qualunque versione scegliate (5e 2014 o 5e 2024, sono compatibili l’una con l’altra), servono i tre manuali base:

  • Manuale del Giocatore (o almeno l’estratto SRD gratuito), imprescindibile per giocatori e master.
  • Guida del Dungeon Master (utile solo a quest’ultimo, soprattutto per le tabelle degli oggetti magici; nel nuovo 2024 ci sono anche l’ambientazione di Greyhawk e le regole sulle Roccaforti)
  • Manuale dei Mostri (che DM sareste senza?)

Il set di regole base SRD (un estratto gratuito dei manuali ufficiali) è stato rilasciato da Wizards e lo trovate qui nella sua veste italiana versione 2014. Per chi gioca con la 5e 2014, sono consigliati anche i manuali di Tasha e Xanathar per i giocatori (nella 2024 sono già integrate in parte), mentre i manuali di Mordenkainen, Bigby e Fizban arricchiscono il bestiario per i DM.

Se state pensando di acquistare i manuali 5e 2024 in italiano, le nuove traduzioni usciranno tra aprile e settembre 2025, mentre quelli in inglese sono già in commercio.

Virtual Tabletop (VTT)

Roll20 è uno dei VTT più noti e versatili, offrendo soluzioni sia gratuite che a pagamento

Se non puoi più giocare di persona o hai amici lontani, i tavoli da gioco virtuali (VTT) sono la soluzione ideale per condividere immagini, suoni e mappe di combattimento con pedine interattive. Ecco un rapido confronto tra alcuni dei più usati:

  • Roll20 – Il più famoso e ufficialmente supportato: lo sto usando anche io in questo momento con buoni risultati. Permette di gestire mappe, segnalini, tiri di dado, schede personaggio digitali e illuminazione dinamica per nascondere le aree non ancora esplorate. Offre molti manuali ufficiali (gratuiti in versione SRD o acquistabili). Tuttavia, ha una curva di apprendimento ripida e spazio di archiviazione limitato nella versione gratuita, rendendo presto necessario un’abbonamento. E parecchi bug irrisolti.
  • Owlbear Rodeo – Più semplice e intuitivo, con un’interfaccia accattivante. Offre gestione del tabellone, nebbia di guerra e tiri di dado. È perfetto per chi inizia, ma ha il difetto enorme di mancare di schede automatiche affidabili e non supporta manuali ufficiali, affidando ai modders l’intero sforzo di adattarvi qualcosa. Raccomandato solo se siete principianti, non volete pagare e vi piace usare un ibrido cartaceo/virtuale.
  • Foundry – Spesso indicato come il principale rivale di Roll20. Non l’ho provato direttamente, ma i suoi vantaggi sono noti. Oltre ad essere un acquisto singolo e a dovere fare voi da host alla partita, potete modificarlo a piacere facendolo esattamente adatto  alle vostre esigenze, tanto da assomigliare davvero alla interfaccia di un MMORPG. Le performance dicono siano ottimizzate anche su hardware datati. Limiti: configurazione complessa che richiede aggiornamenti manuali dei moduli e una curva di apprendimento e pre-configurazione notevole per i DM.
  • Fantasy Grounds – anche questo non l’ho provato ma è attivo da vent’anni, si colloca su una dimensione molto simile a Foundry, con possibilità sia di acquisto che di abbonamento.
  • D&D Beyond – Supporto ufficiale della Wizards of the Coast. Più giovane e sicuramente ancora acerbo rispetto a Roll20 e Foundry, recentemente ha ricevuto un update, affiancato una piattaforma 3D chiamata Sigil, che però sembra avere ancora molta strada da fare…

Se ne conoscete altri, segnalatemeli pure e li metterò qui!

Chat/Canali vocali

Impossibile non citare Discord, quello più completo, con possibilità di condividere schermo, musica via YouTube e che può usufruire di bot dedicati ai giochi di ruolo per aiutarvi, ad esempio, a tirare i dadi (Avrae e simili). Si integra anche molto bene con Roll20 consentendovi di usare la sua interfaccia per audio e telecamere. Teams o Zoom sono comunque valide alternative. Ma francamente Discord non vi farà venire voglia di cambiare.

Siti dedicati e utili(ssimi)

Qui, si apre un mondo. Fare il DM oggi è estremamente più facile grazie alle migliaia di siti dedicati, anche se la maggior parte in inglese. Se vi interessa una guida spiritosa e completa a massimizzare i vostri personaggi, potete guardare gli ottimi siti italiani I Cast Shield e Telodoioildungeon. Altri siti imprescindibili sono Dungeon & Draghi e DnD Wiki Italia. Ricchissimo anche il panorama dei gruppi Facebook italiani!

Inkarnate consente non solo di creare meravigliose mappe con zero esperienza in grafica, ma ha anche un enorme database a cui attingere!

Ecco altri siti e la loro funzione (in inglese):

SitoCosa trovarci
DonjonUn’accozzaglia di generatori per quando non vi va di spremervi il cervello per creare un dungeon o il libro di incantesimi di un mago che i PG hanno appena accoppato.
WatabouLa possibilità di creare in AUTOMATICO mappe di interi mondi o villaggi, pronte per essere giocate. Un mito.
Inkarnate, Dungeon Alchemist, Dungeondraft, WonderdraftSiti e programmi favolosi per disegnare mappe per GdR! A pagamento una tantum o con abbonamento, con prove gratuite possibili. Consigliatissimo Inkarnate!
Fantasy Name GeneratorsAvete bisogno di un nome per qualsiasi cosa? Qui trovate fin troppe possibilità!
Tabletop audioUna soundboard pazzesca con tutte le musiche e gli effetti sonori che vi servono per la vostra campagna, anche al tavolo! Un MUST e gratis!
Thievesguild.ccUn ottimo database di varie cose non coperte da regole ufficiali (scuoiare un drago? no problem!) e anche una interessante lista dei prezzi degli oggetti magici
Kenku FMVolete trasmettere musica dal vostro browser direttamente nelle cuffie dei vostri giocatori? Potete usare questa app gratuita che si integra alla grande con Discord, ad esempio per far sentire musica durante le sessioni VTT!
Dungeon ScrawlDisegnare semplicissime mappe di dungeon gratis, anche integrate in tempo reale con Roll20? Ecco qui!
Token StampDovete creare un token partendo da una immagine che avete? Ecco qui, trascinatela sulla loro pagina, sistematela e download!
Azgaar’s Fantasy Map GeneratorBisogno di creare la mappa di un intero mondo fantasy, con biomi, rilievi, nazioni e araldica in 3 click? Azgaar è il posto per voi!
Fantasy Town GeneratorOk qui rasentiamo la follia: questo creatore di città vi genera OGNI SINGOLA CASA dell’insediamento con tanto di descrizione degli abitanti!
ArmoriaL’incredibile creatore di scudi ed emblemi araldici, pronti per la vostra campagna ed editabili!

App per dispositivi mobili in italiano

NB: Queste app sono aggiornate alla versione 2014 delle regole.

  • DnDSpellslist, disponibile sia via browser che app ( quest’ultima chiamata “Spells 5e“), è una app molto utile contenente tutti gli incantesimi di tutte le classi in italiano e inglese. La versione mobile sembra più aggiornata di traduzioni rispetto a quella browser, che ovviamente è accessible da ovunque. È possibile anche crearsi il proprio libro degli incantesimi per il proprio personaggio.
  • 5e Helper Ita sostanzialmente ricalca la precedente in maniera egregia ma, seppure sia disponibile solo per mobile (in italiano!) aggiunge anche un comodo manuale dei mostri per Dungeon Master.

Usare l’Intelligenza Artificiale (IA/AI)

Anche se i più conservatori potrebbero storcere il naso, l’uso dell’IA aiuta enormemente i Master che hanno poco tempo. Affronteremo questo in un post futuro, ma vi basti già sapere che i più famosi strumenti di IA generativa gratuiti conoscono D&D e vi possono aiutare! Provate a fare loro una domanda: vi stupirete della risposta! Utilissimi anche per generare mappe e immagini per le vostre campagne!

Convertire da Feet a Metri

Per ultimo, qualcosa di utilmente pratico. Vi capita di usare VTT o manuali in lingua originale? Nei materiali originali si usa il sistema imperiale e non metrico, che provoca diversi disagi: uno è quello di convertire le distanze da Piedi (ft) a metri (m) (1 piede = 0,3048 metri; 1 metro = 3,281 piedi). Nei manuali si adotta la conversione approssimativa 10 ft = 3 m, quindi basta moltiplicare per 3 e dividere per 10 la misura in ft per ottenere i m: 15 ft in metri sarebbero 15 x 3 = 45, che poi divido per 10 e ottengo 4,5 metri.
Ma se ancora non avete capito, ecco una comoda tabella stampabile:

FeetMetri (D&D)FeetMetri (D&D)
5 ft1,5 m70 ft21 m
10 ft3 m80 ft24 m
15 ft4,5 m90 ft27 m
20 ft6 m100 ft30 m
30 ft9 m110 ft33 m
40 ft12 m120 ft36 m
50 ft15 m130 ft39 m
60 ft18 m140 ft42 m
  150 ft45 m

Con questo abbiamo finito e vi rimandiamo ai prossimi post, seguite l’hashtag #D&D per non perderverli! 🙂

A presto!

Per scrivere questo post sono state utilizzate risorse di IA, per le immagini e la revisione dei testi.

Medici e Chirurghi nella Genova Medievale – Quarta parte: Gli ospedali genovesi

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Siamo giunti alla quarta e ultima parte dedicata alla medicina medievale genovese e oggi parleremo degli ospedali della Genova medievale, con cenni generali al sistema ospedaliero dal basso medioevo in poi. Se volete riprendere la prima parte sui medici, oppure la seconda sui chirurghi, la terza sulle terapie e i farmacisti, potete usare i link appositi. Buona lettura!

Il sistema ospedaliero medievale

A tracciare un quadro già complesso in partenza, dobbiamo scordarci l’esistenza di un qualsivoglia Sistema Sanitario Nazionale Medievale e dividere il millennio medievale in fasi. In un primo momento (fino circa alla Prima Crociata), si sviluppa il concetto di Ospizio-Ospedale.

Medieval Greatham Hospital in 1785. Note the logs as fuel to warm the patients. Engraved by Samuel Sparrow, in Gross F. The Antiquities of England and Wales. Hooper, London, 1772-1787. Photo © author from personal collection, permission for academic & non-commercial reuse.

L’ospedale era inteso sia come “xenodochio” destinato più che altro ai pellegrini e agli indigenti, che come “nosocomio“, luogo di ricovero per “i poveri di Cristo” sia che fossero malati o feriti che disperati, con rimando naturalmente al termine “ospitalità” che è radice comune. Fino all’anno mille la Chiesa ebbe un grande ruolo nell’organizzare in tutta Europa una rete di ospedaletti (formati da una o due casette collegate, massimo con due piani), soprattutto negli snodi viari e nei cammini di pellegrinaggio come Santiago o la via Francigena. Tali alberghi-ospizi-ospedali erano gestiti da ordini mendicanti monastici come i Benedettini, Domenicani, Francescani o i più bellicosi ordini guerrieri come i Cavalieri Ospitalieri che prendono il nome dalla loro vocazione assistenziale.

La malattia è anche la stanchezza del viaggio e il ristoro è guarigione. In tali luoghi di culto e ospitalità assieme, il viandante o il malato spesso coincidevano e potevano venire ristorati nel corpo (e nello spirito) per poi riprendere il viaggio (talvolta verso l’aldilà) oppure il ritorno alla propria vita da sano. L’assistenza agli infermi o ai pellegrini veniva offerta spesso gratuitamente (il malato poteva fare un’oblazione) ma il personale sanitario era molto diverso da quello odierno, come vedremo nella sezione apposita.

La seconda fase inizia nell’XII secolo, dove gli ospedali diventano ampi e strutturati e dove si sposta l’attenzione più verso il malato e meno sul pellegrino. In questi centri i frati/suore guaritori includevano in loro stessi un po’ la figura del medico, del chirurgo, del barbiere, dell’infermiere, del paramedico, dell’O.S.S., del fisioterapista, del dietista/dietologo, del farmacista, dello psicologo (o meglio dovremmo dire “confessore”) e ogni altra specialità sanitaria.

Per mantenere in vita un ospedale (e soprattutto i suoi pazienti) ci volevano molti soldi: lasciti e donazioni erano il più forte contributo – insieme a qualche timido intervento comunale – e includevano anche interi immobili o strumenti per l’assistenza (es. letti e cuscini), per non parlare delle questue/elemosine raccolte dal personale ecclesiastico, fino alla crisi del ‘400. Alla fine del medioevo alcuni ospedali erano così messi male che a questuare venivano impiegati anche gli stessi pazienti!

Verso la metà del 1200 inizia la terza fase, che culminerà nella riforma del Concilio di Vienne del 1311 e a Genova con la costruzione di Pammatone nel primo ‘400. La sanità ospedaliera, saldamente in mano ecclesiastica, entrò in una sorta di “crisi” in cui venne puntato il dito contro i rettori degli ospedali, rei di essere ormai troppo intrallazzati e di commettere abusi di natura anche economica (un rettore visse nell’ospedale genovese di S. Lazzaro con la propria amante, con la quale dilapidava i fondi ospedalieri…). La sanità diventò finalmente un importante affare di stato e iniziò a svilupparsi un concetto di salute pubblica che interessava molto i governanti. Comuni e regni decisero di affiancare a quella religiosa una progressiva laicizzazione della sanità, mantenendo un supporto meno ingente da parte degli ordini mendicanti. Questi ultimi furono in parte “responsabili”, attraverso la loro predicazione, di un movimento di riforma sanitaria che interessò l’Europa intera, un ritorno a precetti evangelici che prevedevano ampiamente l’assistenza gratuita degli infermi.

“Bevi che ti fa bene” – “Che roba è?” – “Meglio che tu non lo sappia!”

A dare il colpo di grazia alla sanità medievale furono le grandi epidemie di peste (e altri malanni) che flagellarono il ‘300 insieme a carestie e cambiamenti climatici. I governi si resero conto che città affollate e sporche, battute da schiere di vagabondi malati o denutriti liberi di muoversi erano fonti di contagio considerevoli e pertanto si posero l’obiettivo di circoscrivere in grandi centri ospedalieri tali miserabili, tanto che i ricchi continuarono a curarsi a casa mentre l’ospedale fu destinato per lo più ai meno abbienti, come se la povertà stessa fosse la malattia.

Questo cambiamento portò definitivamente in secondo piano il piccolo ospizio-ospedale dei pellegrini in luogo della costruzione di “policlinici” veri e propri, oppure dei nosocomi specializzati in malattie specifiche come i lazzaretti o i lebbrosari. Tali ospedali laici furono fondati da veri e propri benefattori mossi da spirito evangelico (… e ammanigliati con la politica). Questo processo portò a costruzioni e demolizioni di interi isolati in città per far posto a queste “città della salute”. Gli ordini religiosi rimasero gestori nell’ombra di tali strutture sanitarie: questo per via dei loro privilegi ecclesiastici come costruire cimiteri o luoghi di culto nel circondario dell’ospedale stesso, una imponente serie di sgravi fiscali ed esenzioni da imposte varie, o di essere giudicati da tribunali ecclesiastici e non civili.

Ma i frati non potevano essere amministratori senza violare i severi dogmi di povertà elaborati dai loro fondatori. Cercheranno il modo di farlo comunque attraverso confraternite o sotto-ordini affiliati ma che non possedevano gli stretti vincoli di aderenza zelota ai precetti evangelici (come il divieto di gestire denaro). Insomma: fatta la legge, trovato il direttore.
Non ultimo, con l’ascesa della borghesia artigiana, anche le corporazioni e le gilde si trovarono a imbastire ospedali appositi per i loro iscritti (per esempio, a Genova lo fecero i calzolai e la compagnia dei Caravana, oggi noti come “camalli” o scaricatori di porto).

Giunti alla fine del Medioevo, dunque, nelle grandi città erano presenti di solito almeno uno o due grandi ospedali in parte pubblici e in parte religiosi, diversi centri specialistici o luoghi di quarantena, medici e chirurghi/barbieri privati che operavano sui pazienti ambulatoriali e gli immancabili speziali a gestire le terapie farmacologiche.

Tutto il mondo rurale, come detto negli articoli precedenti, rimase per lo più isolato da questa assistenza e lasciato alla mercé di guaritori improvvisati, erboristi e “vetule” anziane, che curavano sul confine sottile tra stregoneria, misticismo e scienza empirica, mentre il mondo militare iniziava a scoprire l’utilità di avere medici e barbieri fissi al seguito dei Condottieri.

I pazienti e le cure

“Ora diagnosticheremo se sei in grado di pagare o meno”

Qualsiasi persona “in difficoltà” – malato, viandante, orfano, vedova – poteva recarsi a chiedere aiuto negli ospedali e diventare “paziente”. Era anche possibile donare le proprie sostanze all’ospedale e diventare ospite ad vitam, come in un’odierna casa di riposo. Tutto questo purché l’afflitto si recasse nel nosocomio vicino alla sua parrocchia. Era infatti possibile ricevere porte in faccia per diverse ragioni: ad esempio non venivano ricoverati facilmente i cosiddetti “incurabili”: paralitici, mutilati, affetti da deformità, non-vedenti o lebbrosi, che dovevano recarsi in centri speciali apposta per loro. Come pure i forestieri (noi liguri non ci smentivamo mai neanche allora).

Viaggiatori e pellegrini venivano trattenuti di solito non più di 1-3 giorni prima di essere rispediti sul loro cammino. L’alimentazione era molto importante nella cura delle malattie e sappiamo che i pazienti erano nutriti spesso meglio che a casa (pur seguendo le folli diete ippocratico-galeniche di cui vi ho già parlato). L’igiene era sicuramente migliore in ospedale che tra le mura domestiche: il paziente veniva lavato – a volte con bagni alle erbe che oggi solo in una spa potremmo trovare – e le lenzuola cambiate spesso (i cittadini poveri non avevano nemmeno quelle e dormivano direttamente sulla paglia, infestata da insetti).

L’arredamento era adeguato alle necessità di cura, essenziale ma pratico, con piccoli comfort come cuscini di piuma o lenzuola di tela. Attorno all’ospedale poteva sorgere un giardino con frutteto e l’immancabile erbario dove attingere per preparare i farmaci. Gli ospedali non erano però alberghi a cinque stelle: il paziente si spogliava di ogni bene, indossava un camicione o restava nudo nelle lenzuola e non di rado ci si trovava a condividere il letto (non la stanza: proprio il letto!) con un altro paziente dello stesso sesso. Solo i casi gravi venivano isolati.

Il personale sanitario ospedaliero

Che il mondo ecclesiastico avesse un ruolo cardine nella cura della persona non stupisce. Ancora meno se si considera che la malattia poteva essere considerata una “messa alla prova” da parte di Dio, come per il povero Giobbe.

A reggere l’ospedale religioso era il rector o hospitalarius (vengono usati molti altri termini), in genere di nomina vescovile o capitolare oppure dal Gran Maestro per gli ordini cavallereschi come Templari, Ospitalieri ecc. La nomina del “direttore” dell’ospedale laico spettava invece al fondatore o agli eredi (una sorta di direttori amministrativi odierni), ma quasi sempre con il timbro del vescovo. Al rettore veniva imposto un abbigliamento clericale anche se fosse stato laico, e di farsi la tonsura (i capelli a ciambella, per capirci). Tale ruolo poteva essere a vita (specie se il rettore donava ogni suo bene all’ospedale) o a mandato temporaneo. Come aiutanti del direttore potremmo immaginare un enorme schiera di uomini e donne non-propriamente-medici, ovvero semplici frati/suore retribuiti “a provvigione” dalla Chiesa o dai donatori, oppure conversi pagati (laici che prestavano servizio religioso) e quanto altro, con conoscenze sanitarie variegate. Esistevano poi numerosi servi (con basso salario) a cui erano affidati compiti umili e che, in vecchiaia, potevano restare ospiti fino alla morte.

“Vai, batti cinque che forse guarisci!” Royal 11 D IX, f. 207v

L’assistenza gratuita monastica non prevedeva la richiesta di onorario ma la spesa sanitaria cresceva come la necessità di ricorrere a professionisti esterni che avevano studiato. Quando i frati avevano provato tutto con preghiere e arti, v’era sempre la possibilità di tapparsi il naso e chiamare medici “privati” a pagamento per farli intervenire (oggi la chiameremo intramoenia). La cosa era particolarmente gradita se il medico avesse rinunciato all’onorario “pro bono” del paziente e di Dio, e ciò talvolta accadeva. Ma se è vero che la pubblicità è l’anima del commercio, avveniva anche per garantirsi una futura base-pazienti da curare poi privatamente (e a pagamento) una volta che fosse stata dimessi dagli ospedali, per non menzionare la possibilità di “far pratica”, anche se le leggi verso i medici che cagionavano danni ai pazienti esistevano ed erano severe.

Diversi sanitari medievali, nei loro scritti, si raccomandano di curare le persone a prescindere dal censo e dalla “dichiarazione dei redditi” in quanto buoni cristiani, riservandosi poi – ma questo non lo scrivono, lo capiamo noi dagli atti – di spremere adeguatamente i pazienti ricchi, come avete letto negli articoli precedenti. Dal 1300 entrano a far parte dei consulenti esterni anche i barbieri/chirurghi, fino a essere chiamati come personale stipendiato fisso; questo accadde poi anche per i medici, a volte con richiesta di stipendio alla Repubblica di Genova stessa.

La rete ospedaliera della Genova Medievale

La mappa degli ospedali medievali genovesi, tratta da Marchesani C., Sperati G., (1981) “Ospedali Genovesi nel Medioevo”, Atti della Società Ligure di storia patria, a cui si rimanda per una versione a maggior risoluzione

Veniamo finalmente a ciò che accadeva nella Compagna Communis a partire dal 1100 (per le epoche precedenti mancano fonti attendibili). Attraverso il bel saggio di Marchesani e Sperati (v. bibliografia), sappiamo che gli ospedali genovesi nel basso medioevo erano circa trenta, fino a ridursi a una ventina alla fine del ‘300. Pur non raggiungendo dimensioni imponenti, erano comunque abbastanza ampi e strutturati, quasi sempre su due piani. Per lo più erano composti da due sale di degenza, dette infirmarie (una per i maschi, l’altra per le femmine), da una cucina, da due o tre piccole stanze e, a volte, da una sala per riunioni o refettorio. In genere presentavano una dozzina di posti letto (come una singola corsia di un medio ospedale odierno) e naturalmente la cappella.

Topograficamente, possiamo distinguere alcune “aree ospedaliere” con una densità maggiore di nosocomi:

  1. zona di Castello
  2. zona dell’abbazia di Santo Stefano (attuale via XX Settembre)
  3. zona Maddalena fino a Castelletto
  4. zona Pré

Per i dettagli sui singoli ospedali, vi rimando volentieri alla pubblicazione già citata (scaricabile liberamente dalla Società Ligure di Storia Patria), mentre è opportuno citare qui almeno i centri principali.

Messo in piedi nel XII secolo, sorse dopo le primissime crociate per opera dei Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme, ordine monastico-guerriero con la sua tunica nera (poi rossa) e croce bianca, oggi noto come Ordine di Malta. Più oculati dei loro fratelli templari (che a Genova avevano una chiesa di fronte a Porta dei Vacca) i “giovanniti” furono un ordine stimato e riverito sia per le doti belliche che per quelle assistenziali.

Le “commende” erano veri e propri quartieri generali dell’ordine retti da un Comandante (commendatore) e S. Giovanni di Pré non faceva eccezione. Tale ospedale rappresentava un centro importante anche perché posto in un importante snodo costiero per i pellegrini in viaggio verso la Terrasanta, e infatti comprendeva anche un monastero per i cavalieri e i frati. Circa nel 1180, per opera di Fra’ Guglielmo, iniziò l’edificazione di una nuova chiesa ancora oggi in funzione, attorno alle strutture ricettive già esistenti.

Illustrazione di Ralph Hammann che mostra le diverse vesti degli Ospitalieri medievali (rosse a partire dalla metà del XIII secolo)
Soultz commandery, France. Licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike

Se è vero che tra il personale sanitario vi fu anche un santo – Ugo Canefri – di certo non è fantasia immaginare l’ospedale di Pré come un fiore all’occhiello per la sanità medievale ligure, forse anche per l’immunità politica degli Ospitalieri dal Comune e persino dal vescovo di Genova, più un’invidiabile serie di privilegi e sgravi fiscali, oltre alle ricche donazioni e ai terreni amministrati dall’Ordine.

Nell’ospedale venivano convocati medici esterni, come sopra, ma c’erano anche “confratres” medici che prestavano il loro servizio fisso, configurando di sicuro un’assistenza medica di livello (compatibilmente con la mezza-follia della medicina medievale…) che comprendeva una dieta ricca e l’esposizione all’aria di mare (dovete immaginare, infatti, la Commenda con le sue arcate poste direttamente sulla spiaggia!)

Cavalieri e frati, con una certa presenza anche femminile, si alternavano nella cura dei malati assieme ai già citati “confratres”, ovvero conversi e servitori laici, onorando i pazienti e chiamandoli “miei signori”. La presenza femminile è attestata nel limitrofo monastero di S. Leonardo, con tanto di badessa e giovani rampolle che prendevano i voti o diventavano consorelle.

Tutto meraviglioso? Sì, fino alla fine del ‘300, specchio della crisi dello stesso ordine Ospitaliero, ormai scacciato dalla Terrasanta. Dopo l’avvento del già ipercitato Pammatone, la Commenda tornò ad essere unicamente ricovero per i pellegrini.

Nel 1153 circa, un benefattore di nome Bonmartino decise di dedicare ai lebbrosi un centro apposito: il lebbrosario di S. Lazzaro, costruito presso capo di faro (oggi San Benigno, la zona della Lanterna); in cambio, ricevette il titolo di rettore a vita e vitto e alloggio per sé e la famiglia. Sulla scelta del nome Lazzaro va notato che vi fu confusione già nel medioevo tra due figure omonime citate nella bibbia (il famoso resuscitato da Gesù, infatti, non era lebbroso). La lebbra nel medioevo veniva vista come una vera e propria maledizione divina, tanto che spesso gli affetti dall’infezione venivano chiamati con sinonimi quali “miseri” o “infermi”, pur di non citare il nome della patologia. Assistere questi reietti della società era dunque un segno di carità che poneva il “caregiver” come figura vicinissima al Cristo.

L’istituto sorse non senza fatica per le “gelosie” della parrocchia limitrofa. I lebbrosi di questo centro, che poteva ospitare al massimo 50 persone incluso il personale, non erano solo dei malati ma anzi partecipavano alla vita ospedaliera e avevano potere di voto sulle disposizioni. Questo era un esempio di ospedale-comunità, una maniera quasi monastica di gestione e in parte carceraria, dato che ai lebbrosi non era concesso di girare liberamente in città (e comunque farlo segnalando la presenza con una “raganella” di legno). Naturalmente, si sostentava con donazioni ed elemosine.

Una volta entrati nel centro, i beni del lebbroso diventavano patrimonio comunitario. Si istituiva una triste cerimonia di “morte civile” in cui:

“Il lebbroso veniva spogliato dei suoi abiti, rivestito di un saio, e il suo capo veniva cosparso con terra di cimitero, per significare la sua morte al mondo e, dopo la benedizione e la consegna della raganella (strumento che generava un suono di allarme, NdR), della ciotola e dei guanti, che servivano a evitare qualsiasi contatto con le persone sane, veniva accompagnato alla sua cella, dopodiché le porte della domus venivano definitivamente chiuse. Egli non le avrebbe più oltrepassate, se non in rare e brevi occasioni.”

Marchesani C., Sperati G., (1981) “Ospedali Genovesi nel Medioevo”, Atti della Società Ligure di storia patria

Il centro di S. Lazzaro appariva molto ben regolamentato per circoscrivere il contagio, con norme igieniche che varrebbero ancora oggi (ogni infermo poteva toccare e usare solo la propria roba, non doveva entrare in contatto coi sani e tantomeno toccare oggetti che poi sarebbero stati traslati all’esterno). Durissime le pene contro la blasfemia o gli atti violenti o il furto, mentre era proibito ai degenti ogni rapporto con l’altro sesso, anche verbale.

A portare sollievo ai poveri lebbrosi ci pensavano le Confraternite che una o due volte l’anno preparavano per loro doni o banchetti.

Oggi fa sorridere (e incavolarsi) parlare di ospitalità ligure nei confronti dei turisti, vessati spesso da scontrosi esercenti ma pure dalla popolazione autoctona (che comunque si autovessa per par condicio), e le radici di questo malanimo si possono trovare già nella sanità medievale. Per chi fosse stato straniero a Genova, infatti, era stato istituito un ospedale apposito per i forestieri. Genova porto di mare e sede di guerra (e quindi mercenari) riceveva maestranze e mercanti da ovunque ma, una volta ammalati, essi venivano trattati in malomodo e sospetto, non fosse altro che per la barriera linguistica: in città si parlava una vulgata che era del tutto diversa da quella di Firenze o Milano, per non dire quanto fosse complesso per chi non proveniva da zone di lingue romanze come la Baviera o altro.

Fermi tutti, però: ciò avveniva anche in altre città italiane, per cui un genovese a Roma preferiva comunque farsi assistere da altri genovesi. Dunque nella Superba, quattro nuclei etnici (milanesi, romani, francesi e tedeschi) formarono quindi una consorteria dei forestieri a fine ‘300, che aprì un ospedale vicino alla chiesa dei Servi (oggi distrutta, siamo in zona Piazza Dante). Per questa assistenza era richiesta una quota associativa alla consorteria, ma nel 1400 vediamo già che qualche iscritto faceva il furbo e sottraeva risorse al fondo comune, ad esempio facendo dimorare anche i suoi parenti e amici: per ovviare a questo, al ricoverato fu in seguito imposto di lasciare i suoi beni “in ostaggio”.

Oggi per “fuoco di sant’Antonio” si intende una riesacerbazione del virus della Varicella-Zoster che causa bolle dolorose disposte sul decorso di un nervo. Anticamente però, con questo termine si parlava di un “fuoco sacro” dovuto alla famigerata intossicazione da segale cornuta, dovuta a un fungo (ergot) che affliggeva le granaglie e che causava orribili manifestazioni di dolore urente, ovvero quello tipico delle ustioni. Sant’Antonio divenne protettore di tali ammalati e quindi perché non dedicargli un ospedale situato presso la chiesa omonima in zona Pré?

Sento uno strano tepore…

Sant’Antonio è sempre stato venerato con dedizione dai cattolici e le donazioni a suo nome erano quindi ingenti. I monaci lerinensi titolari dell’ospedale non ebbero vita facile, in quanto il santo era un vero e proprio brand di successo, tanto che l’ordine di S. Antonio a Vienne andò da quello genovese a chiedere una sorta di esclusiva sul marchio e quindi pretese le “royalties”, scomodando anche i papi di Avignone. Alla fine la spuntarono i lerinensi liguri ma i francesi non si arresero e tentarono di aprire un ospedale rivale proprio lì vicino, fino a che papa Urbano V non diede l’esclusiva finale ai lerinensi, tirando le orecchie ai suoi stessi conterranei transalpini. L’ordine tenne banco fino al 1500, secolo in cui l’ospedale venne abbandonato per i motivi di crisi già citati.

La raccolta delle offerte, saldamente in mano ligure, proseguì anche con cassette delle elemosina situate in luoghi strategici della città, con testimonianze anche di qualche frate che si lasciava prendere la mano (e magari scivolare nella manica qualche moneta?). E perché non sfruttare il marchio ulteriormente allevando e lasciando circolare liberamente dei porci marchiati ad hoc per il borgo, per poi macellarli il giorno di Sant’Antonio e venderne le carni? La cosa provocò anche buffi incidenti quando un senatore genovese fu travolto da un branco di maiali alla presenza del Doge, e per la figuraccia fu per un certo tempo proibito all’ospedale tale pratica.

Si arriva all’estremo, ricordando nella chiesa veniva custodito un ipotetico cranio del Santo e una cassa di arti amputati e segnati dalle ustioni “sacre” veniva esposta dai religiosi nelle feste come monito di devozione verso il Santo, che avrebbe dovuto proteggere da tali lesioni.

Terminato il concetto di ospitalità capillare sul territorio, nel ‘400-‘500 assistiamo alla costruzione di due grandi ospedali.

Fondato nel 1422 come Ospedale di S. Maria della Misericordia dal giureconsulto Bartolomeo Bosco, filantropo, l’ospedale noto come Pammatone fu costruito nell’odierno quartiere di Portoria, ai tempi campo di addestramento per le milizie genovesi, inclusi i famigerati balestrieri che si allenavano presso la Porta dell’Olivella. L’attività ospedaliera si concentrava sulle fasce deboli della società: malati e bisognosi (orfani ecc.), con una forma di governo mista laico-religiosa. Bosco inizialmente aprì un ospedale femminile (il cui governo fu lasciato poi a moglie e figlia) unendo tre case di vico Pammatone e, alcuni anni più tardi, istituì la carica dei “protettori” a cui affidò il governo del nosocomio. Dal 1429 iniziò a costruire anche un’infermeria maschile (che non vide terminata da vivo), approfittando di donazioni in denaro e immobiliari; non di rado gli fu offerto l’intero patrimonio della persona, unito all’impegno a prestare servizio a vita nel nuovo ospedale! Inizialmente, Pammatone si resse solo su patrimoni privati, nonostante le richieste di Bosco al Comune di Genova, che versava in cattive acque già da inizio secolo, schiacciato tra Francia e la signoria di Milano. Dopo aver lasciato disposizioni in modo che i suoi beni passassero in minima parte agli eredi e il grosso all’ospedale, morì in data imprecisata dopo il 1432.

Pammatone secondo De Wael – Palazzo Bianco, Genova

Il personale di Pammatone doveva devolvere ogni bene alla comunità ospedaliera ed era diviso in sacerdoti, cappellani e chierici con compiti spirituali, un “infermiere” (con il senso odierno di Capo Sala) che coordinava i “custodi” (infermieri veri e propri), lo speziale responsabile della spezieria (e dell’orto dove coltivare “i semplici”) e poi un sottobosco variegato di conversi/oblati laici che offrivano a vita il loro servizio e “servigiali“, veri e propri servitori dalle umili mansioni (facilmente indigenti che si offrivano di lavorare per il solo vitto e alloggio). Tutti dovevano portare l’uniforme dell’ospedale, di panno umile con croce celeste e, inizialmente, potevano uscire solo con esplicito permesso. La direzione amministrativa comprendeva il Rettore, il Camerario con funzioni di economato, il Notaio, il Sacrista, il Massaro che funzionava da cassiere e il Gastaldo, ovvero l’avvocato dell’ospedale. Il personale medico invece era formato da liberi professionisti pagati che prestavano assistenza due volte al giorno (il medico di guardia sarà istituito solo dal ‘600) e senza i vincoli religiosi di cui sopra. Stessa cosa per i chirurghi, distinti in “Cerusico Principale et altri inferiori” I pellegrini erano benvenuti ma solo per tre giorni e gli “incurabili” (v. in seguito) respinti in gran numero.

Altro gravissimo problema fu quello degli “esposti“: il numero di trovatelli abbandonati presso l’ospedale era così alto che Pammatone spendeva una fortuna per pagare nutrici e per prodigarsi nel maritare le fanciulle cresciute fino all’età da marito, tanto da spingere il personale ospedaliero a protestare varie volte e costringere il comune a multe, fustigazioni e tassazioni qualora in casa vi fosse una gravidanza indesiderata, non di rado dovuta alla liaison “padrone-servetta”. Deterrenti che non furono efficaci.

Pammatone fu l’ospedale maggiore di Genova fino alla costruzione del Galliera prima e del San Martino poi. Tale onere venne sancito ufficialmente da Roma. Nel 1471, infatti, una bolla papale di Sisto IV diede indicazione di incorporare verso Pammatone le attività di “ospedale maggiore”, portando alla chiusura di molti altri istituti (non senza proteste) e di fatto segnando la fine dell’ospedalità medievale. L’importanza di Pammatone è anche quella di avere dato sede ai medici genovesi di un centro di sapere accademico che si concretizzerà nella prima vera scuola di medicina della Repubblica. Dato che Sisto IV era (di Celle) ligure, l’anno 1471 è anche quello in cui di fatto si può finalmente parlare per la prima volta di “laurea” medica a Genova. Concessione che il pontefice fece proprio al Collegio dei Medici di Genova che finalmente potevano conferire lauree in medicina, poi tutto ratificato anche dal Sacro Romano Imperatore Massimiliano I d’Asburgo, circa quarant’anni dopo. Questa bolla non significa che da lì a un giorno sarebbe stato costruito un corso di laurea strutturato tale da rivaleggiare con Padova o Bologna: la laurea era ovviamente conferita dopo attenta valutazione del Collegio ma il “candidato” poteva rendersi edotto della materia altrove o in studi privati. Tale processo di creazione di un ateneo fu lungo e richiese l’intervento di molte altre figure che esulano questa trattazione, ma di una dovremmo davvero parlarne, perché aprì un altro importantissimo centro.

Fondato nel 1500, l‘ospedale degli incurabili, ovvero il “Ridotto” o “l’Ospedaletto” di Ettore Vernazza, filantropo notaio già seguace di Santa Caterina Fieschi Adorno (la “primaria” della medicina femminile del Pammatone di fine ‘400), rispondeva a tutte quelle esigenze che né Pammatone né i lebbrosari potevano soddisfare: la cura delle malattie croniche. Esse costituiscono oggi probabilmente la maggior parte dell’attività medica, ma ai tempi venivano viste come vere e proprie maledizioni divine, tanto che i malati incurabili meno abbienti venivano respinti in malomodo una volta che si fossero presentati alla porta di un ospedale “normale”. Per malattie incurabili trattate in questo nosocomio non intendiamo soltanto quelle odierne (tumori o malattie autoimmuni), ma anche le deformità o le infezioni croniche come la sifilide (mentre la lebbra riceveva attenzione a parte, come già detto), e in epoca barocca furono ammesse anche le demenze e le malattie mentali. Vernazza non ebbe vita facile all’inizio, in quanto l’Ospedaletto sorse proprio di fronte a Pammatone dove gli incurabili erano respinti a pedate (al massimo tre potevano essere ricoverati nello stesso momento) e grazie all’intervento di altri notabili, la stessa Repubblica si convinse che era meglio concentrare tutti gli infermi in quel grosso “quartiere della Salute” che era divenuto il rione di Portoria, vista anche la presenza di numerosi conventi vicini (e quindi di manodopera low-cost; siamo pur sempre a Zena).

Ettore Vernazza che dice “E io che ne posso?” all’Albergo dei Poveri, Genova

Vernazza fu comunque visto come un innovatore; fondando la confraternita del Divino Amore e del Mandilletto (per l’assistenza di malati e poveri rispettivamente), aprì ospedali del genere in tutta Italia. Fu probabilmente suo il merito di organizzare anche una prima embrionale scuola medica genovese nel primo decennio del ‘500, ma l’assenza di documenti (e un brutto incendio avvenuto proprio a Pammatone nel ‘700) non ci consentono certezza: viene riportato, da un testo di Isnardi sulla storia dell’Università di Genova, che egli probabilmente consentì di aprire tramite lascito testamentario quattro cattedre di Medicina presso l’ospedale, nella prima metà del 1500. Finalmente, Genova aveva la sua facoltà di Medicina.

Pammatone e il “ridotto” rimasero i principali ospedali cittadini per cinque secoli, fino alla costruzione ottocentesca del Galliera e poi del San Martino negli anni ’10 del ‘900. Gli ospedali di Portoria furono distrutti durante la seconda guerra mondiale e sottoposti a “violenza” insieme a tutto il quartiere durante il controverso ammodernamento – iniziato nei primi anni ’60 – di Piccapietra/Piazza Dante/Via Madre di Dio (una vera vergogna per Genova, cantata tristemente da Gino Pesce in “piccon daghe cianin“) e furono definitivamente sostituiti dal Policlinico San Martino. Oggi rimane solo il Chiostro di Pammattone, inglobato ma ancora visibile nel Tribunale di Genova.

Con questo articolo si conclude la nostra rassegna sulla medicina medievale genovese. Condividete ad libitum e grazie per la lettura! 🙂

Bibliografia essenziale

  • Balletto, L., (1986) “Medici e Farmaci, scongiuri e incantesimi, dieta e gastronomia nel medioevo genovese”, Collana storica di fonti e studi
  • Caneva, G., (1977) “L’arte degli speziali sulle galee genovesi”, La Casana
  • Cosmacini, G., (2003) “La vita nelle mani: Storia della chirurgia”, Laterza
  • Cosmacini, G., (2011) “L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi”, Laterza
  • Hryszko, R., (2021) “Le radici medievali della Confetteria Italiana”, Uniwersytet Jagielloński Instytut Historii
  • Isnardi, L., (1861) “Storia dell’Università di Genova”, Tipografia dei sordomuti
  • Marchesani C., Sperati G., (1981) “Ospedali Genovesi nel Medioevo”, Atti della Società Ligure di storia patria
  • Palmero, G., (2007) “Ars medica e terapeutica alla fine del Medioevo. Il caso genovese”, Nuova rivista storica
  • Pesce, G., (1951) “I medici di bordo ai tempi di Cristoforo Colombo” Civico Istituto Colombiano
  • Taddia E., (2009) “CORPI, CADAVERI, CHIRURGHI STRANIERI E CEROPLASTICHE: L’OSPEDALE DI PAMMATONE A GENOVA TRA SEI E SETTECENTO” Mediterranea Ricerche storiche

Indiana Jones 5, la recensione: nostalgico dolce saluto tra occasioni sfumate e CGI

Con “Indiana Jones e il Quadrante del Destino” si conclude l’era di Indy e dei film di avventura anni ’80. Com’è la pellicola finale di James Mangold? Scopriamolo insieme con una recensione SENZA spoiler.

I migliori avversari di sempre

Mads Mikkelsen è un perfetto cattivo per Indy 5: scontro tra cappelli, fedora vs fedora! (fonte immagine Lucasfilm ltd)

Archiviata la parentesi sovietica del mal riuscito Teschio di Cristallo, in “Indiana Jones e il Quadrante del Destino” (Indy 5), il famoso archeologo ritrova i suoi nemici naturali: i nazisti, magistralmente capeggiati da un Mads Mikkelsen perfettamente nel ruolo. L’artefatto conteso, stavolta, è un congegno misterioso greco, pressoché ignoto al 99% del pubblico, la cui funzione verrà rivelata gradualmente nel film. Saprete di certo dai trailer che vedrete Indy ormai canuto nel 1969 ma anche in flashback del ’44, ringiovanito con una convincente tecnica digitale. Nel “passato” Indy è doppiato dal figlio di Michele Gammino, storico voice actor di Harrison Ford, la cui iconica voce rimane comunque nelle scene con Jones anziano; la differenza di timbro tra padre (voce calda e rassicurante) e figlio (un po’ gracchiante) lascia però un senso di straniamento fastidioso. Le scene nel passato sono un vero omaggio ai capitoli 1 e 3, e quindi la sensazione è qualcosa di rassicurante ma già ampiamente visto. Già da questi momenti iniziali, tolta la credibile faccia di Indy giovane, si vede una certa bruttezza della CGI, un po’ finta soprattutto nelle scene di pioggia e velocità, per cui risulta tutto molto fasullo, quasi come se le tecniche digitali fossero di 10-20 anni fa, con la tendenza ad esagerarle in tutto il film. In luogo di fondali e stuntmen che avrebbero reso le scene di azione molto più credibili (v. Mad Max Fury Road).

One man Shaw

Il film è incentrato ovviamente sulla ricerca di questo incredibile manufatto (il Quadrante) per cui Indy verrà affiancato dalla figlia di un ex-collega, Helena Shaw. Con tutto l’amore che si può volere all’attrice Phoebe Waller-Bridge, il personaggio è stereotipato, antipatico, scontato e continuamente sovrastato da Indy. Non manca un richiamo al Tempio Maledetto con il personaggio di Teddy, un ragazzino ladruncolo che nemmeno lontanamente riesce ad eguagliare la simpatia di Shorty. Con grande dispiacere notiamo il cameo di due co-primari dei precedenti film, abbastanza sprecati e privi del giusto riconoscimento. La presenza di Antonio Banderas come personaggio secondario farà soffrire i suoi fan, essendo relegato a un ruolo anonimo, breve e privo di importanza. Insomma, è tutto sulle spalle di Ford che dimostra di saperci ancora fare, seppure la sospensione dell’incredulità fatica a rimanere integra nello spettatore, continuamente sollecitato a non ritenere plausibili improbabili scazzottate “due contro cento” e inseguimenti incasinati alla Transformers.

Vedrete Indy ringiovanito al computer e ormai anziano. (fonte immagine Hollywood Reporter)

Ma c’è del buono

Indiana Jones 5 però non è un brutto film: è solo in ritardo di 15 anni sul gusto del pubblico. Se fosse uscito nel 2008 al posto del terribile predecessore, nessuno avrebbe avuto da ridire. Ma avrebbe comunque segnato il declino di questo tipo di cinema d’avventura ormai schiacciato su storie riviste mille volte (grazie “Viaggio dell’eroe”) e dal finale scontato.
A parte tutto, non c’è mai un attimo di noia e Indy 5 ha i suoi bei momenti: i cattivi sono spietati e brutali, si soffre per le loro vittime innocenti. Mikkelsen è un main villain convincente che riesce a trasparire malvagità pure nel semplice dialogo con un cameriere. C’è l’amarezza di Jones in pensione con la famiglia spezzata, un incredibile finale a sorpresa dove il professore che ha bevuto dal Graal, sconfitto i Thug, recuperato l’Arca dell’Alleanza e visto gli alieni, supera L’ULTIMA barriera che resta e fa quello che qualsiasi archeologo vorrebbe fare al suo posto (guardatelo e capirete). Ci sono luoghi iconici e la immancabile mappa con la linea rossa sul percorso dell’archeologo.

Copiarsi non è plagio: missione compiuta?

Indy 5 decide dunque di tornare nella sua zona di comfort recuperando citazioni e personaggi che fanno parte del suo passato; per questo è scontato ma l’azione non manca mai, non si sbadiglia e Ford sa tenere tutto in piedi.
Nel complesso un film da 6, uno di quelli che non riguarderai più. Un saluto decente (ma non ottimale) al suo personaggio e al genere d’avventura. I tempi sono diversi e agli archeologi si sono sostituiti miliardari spaziali e subacquei. Chissà se il cinema eleggerà loro come eroi del presente. Ma anche il cinema è cambiato: la X non indica più il posto dove scavare… ormai è soltanto il prefisso per un gruppo di supereroi mutanti.

A presto!

Medici e chirurghi nella Genova Medievale – Terza parte: terapie e farmacisti

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Terza parte del viaggio nelle attività dei medici medievali genovesi. Oggi parleremo delle terapie che erano prescritte ai malcapitati pazienti nella Repubblica di Genova medievale. Con la doverosa premessa di chiarire da quali basi partisse la medicina medievale.

Se volete recuperare la prima parte dedicata ai medici propriamente detti potete trovarla qui (oppure nell’ottimo sito Genova Medievale), mentre a questo indirizzo troverete la seconda parte dedicata ai chirurghi e barbieri. Qui invece, l’ultima parte sugli ospedali genovesi.

Cenni generali di terapia medievale

Secondo il più classico dei classici, Ippocrate, dentro il corpo umano vi sarebbero quattro fluidi detti umori: sangue, bile nera (un mix di sangue coagulato e muco scuro, mai identificato realmente), bile gialla (quella del fegato/colecisti), e flemma (il catarro), il cui sbilanciamento sarebbe stato la causa delle malattie. Un surplus di un particolare umore, inoltre, avrebbe reso il paziente, appunto, di “cattivo umore”. Eccesso di bile nera? Il paziente sarà “melanconico” e dunque triste, mentre un surplus di bile gialla lo avrebbe reso “collerico” e irascibile.

La teoria umorale ippocratica, l’ABC del medico medievale.
Ronev, CC0, via Wikimedia Commons

Tali teorie bislacche si mescolavano con pratiche prive di razionale come l’astrologia o l’uroscopia: osservare le urine per capire da quale malanno fosse affetto il paziente (sì: le assaggiavano per fare diagnosi di diabete mellito. Ma, al netto del ribrezzo, aveva senso).

Trovata la presunta causa del malanno, il paziente poteva andare incontro a diverse terapie (o nessuna): poteva essere allegramente salassato (ovvero farlo sanguinare incidendo una vena) per riequilibrare gli umori, ottenendo soltanto di anemizzarlo e forse renderlo più “mansueto”, se non addirittura di peggiorare la sua condizione. Poteva essergli prescritta una rigida dieta (regimen) che tenesse conto della fonte presunta del malanno secondo lo schema umorale: ad esempio se la malattia fosse stata considerata “calda” o “umida” ecc, la dieta sarebbe stata “fredda” o “secca”. Il regimen riguardava anche norme igieniche come l’attività fisica e variava nel tempo a seconda dello stadio di malattia, arrivando talvolta a prescrivere l’alimentazione di cibarie raccapriccianti.

Significativo e ugualmente sgradevole era un altro modo di allontanare la materia peccans: assumere sostanze emetiche o lassative, irritanti la mucosa digestiva in modo da garantire un’ipotetica catarsi del malanno da sopra… o da sotto. Questo poteva aver senso nelle infezioni digestive dove ancor’oggi, in alcuni casi, si può consigliare al paziente di non impedire il vomito o la diarrea, in quanto servono ad allontanare l’agente infettivo dal tubo digerente. Tuttavia, oggi non si somministrano sostanze irritanti e si lascia che la natura faccia il suo corso.

A far precipitare la credibilità di questa già poco difendibile arte ci si metteva anche l’astrologia e la infondata credenza che potesse avere una qualsiasi influenza sugli umani destini. All’epoca, tale pseudoscienza era invece estremamente gettonata. Nella farmacopea ligure troviamo, tanto per dire, la ricetta di un amuleto d’oro con incisi alcuni astri, da bagnare nel sangue di capra e applicare sulla schiena per impedire la formazione dei calcoli renali. Oppure, prassi ubiquitaria, rimandare un intervento chirurgico alla settimana successiva perché le stelle non erano correttamente allineate.

Non ultimo, il medico poteva prescrivere rimedi farmacologici, quasi tutti a base di erbe, spezie e minerali, spesso associati a una patologia solo per il loro odore o colore (“sanguinamento? Usiamo un fiore rosso oppure con le foglie bucate!”). Nella farmacopea medievale troviamo molte sostanze disgustose o pericolose (come lo sterco d’asino, ragnatele e bava di lumache) e pomate, olii, unguenti, impiastri, cataplasmi o elettuari a base di spezie o sali metallici, già più sensati per il loro potere antibatterico ma tossici a dosi errate. Non mancavano una serie di ingredienti sbalorditivi come la “mumia” di cui ho già parlato precedentemente (polvere dell’ossidazione dei cadaveri mummificati) e veri evergreen, quali la “teriaca” (v. in seguito), la trementina di Venezia o l’olio di rosa, che erano rimedi comuni come oggi lo è il paracetamolo.

Il già ampiamente citato rispetto dei classici greci e romani (che ogni medico doveva non azzardarsi mai a mettere in discussione) portava a considerare come sacre teorie erronee. Come quella del pus ereditata da Galeno, il principale esempio del “si è sempre fatto così”, la frase nemica numero uno della scienza. Se un medico medievale avesse visto un ascesso, essendo sconosciuti sia i batteri che gli antibiotici, il dotto avrebbe applicato un terribile misunderstaning della medicina classica. Galeno, che visse ai tempi dell’Impero Romano, aveva notato che la produzione di pus si avvicinava all’esito finale dell’infezione (inclusa però la morte…) e l’aveva definito “pus bonum et laudabile”, aggiungendo però che “ubi pus, ibi evacua” (“dove c’è del pus, drenalo via”). Il travisare la teoria galenica portò per secoli i medici a considerare solo la parte “laudabile” del pus, applicando alle ferite dei malcapitati ogni sorta di mostruosi impiastri e unguenti a base di schifezze e quanto di più settico vi fosse, per stimolare ancora di più la produzione di pus. Potete immaginare, dunque, come andasse spesso a finire.

La tanto decantata medicina araba, poi, arrivata in Europa con la traduzione del canone di Avicenna nel basso medioevo (l’Harrison dell’epoca), non era molto di più che una rivisitazione delle teorie ippocratiche condite con le più moderne teorie della scuola di Baghdad. Fu sicuramente un miglioramento scientifico, ma non aspettatevi miracoli nemmeno da essa.

Tutto da buttare? Affatto. Alcune intuizioni – ad esempio quelle di Celso – erano fondate e ancora oggi utilizzate, come il potere antisettico di alcuni metalli, il cambio periodico delle medicazioni o la legatura dei vasi nelle emorragie in luogo del devastante uso della cauterizzazione. Ma, specialmente nelle malattie infettive, davvero si poteva fare affidamento perlopiù sulla forza del corpo e a volte era meglio evitare del tutto l’osservazione medica. Non stupisce, quindi, il trovare spesso individui non-medici che, nelle carte notarili, dispensavano anche consigli sanitari che “su di loro funzionavano”.

Terapie e diete del medico medievale genovese

Tracciato l’amaro quadro empirico dell’arte medica medievale, vediamo che cosa è giunto a noi dalla Liguria.

Nella Superba l’atto medico poteva consistere in una prescrizione essenziale e generica e a basso costo (quella che chiedi al tuo amico medico davanti a una pizza: “senti c’ho un dolore qua, che può essere?”) oppure il vero e proprio “consulto” (consilium) che si riservava al paziente VIP/pagante, diviso in tre parti: il casus (anamnesi e diagnosi della malattia); il regimen (l’insieme della dieta e delle norme igieniche da seguire) e medicinalia (la terapia farmacologica).

Il Salasso, una pratica diffusissima
da Aldobrandino of Siena: Li Livres dou Santé. XIII secolo. British Library, London, UK

L’esempio della gotta

Tutti, pensando al medioevo, evochiamo spesso la “gotta”, una dolorosa afflizione delle articolazioni periferiche dovuta a un eccesso di acido urico, i cui precursori sono presenti in molti alimenti proteici quali carne e pesce, ma che per lo più è dovuta a problemi renali imprevedibili. Vediamo tre approcci a questa patologia.

  1. Un medico medievale di Moneglia proponeva una dieta a base di pulcini e uccellini (…ma non avevamo detto che era meglio evitare la carne?!), bere acqua e zucchero, assumere compresse di ermodattilo e rabarbaro per la fase acuta e poi altre piante per il mantenimento della remissione. Questo perché la gotta era una malattia “calda e secca” secondo la teoria umorale e quindi si prescrivevano alimenti “tiepidi e umidi”.
  2. Un medico “togato” del Quattrocento, Antonio da Novi, consigliava di non bere alcolici (va benissimo!) ma sorseggiare acqua cotta con mollica di pane e un po’ di sciroppo di scorza di limone e – finalmente! – astenersi dai cibi carnei di bovino adulto e suini (però gli uccellini andavano bene anche per lui), lasciando però il paziente libero di alimentarsi con vitelli giovani o carne di capriolo (eh ma allora! Era partito bene!) per poi riprendere dopo 1-2 settimane ad alimentarsi di ogni carne, partendo con l’intramontabile brodino di pollo (consiglio tra i peggiori, in quanto il brodo e il pollame aumentano la produzione di acido urico!). Più o meno concessi gli altri alimenti. In pratica, si faceva un passo avanti e tre indietro. Poteva andare peggio? Certo che sì. Al paziente venivano prescritte delle pillole lassative di erbe e di indursi il vomito due o tre volte al mese, di stare tranquillo senza incavolarsi e astenersi dal sesso (che tanto hai male al piede). Finiti i consigli, si passava a una complicatissima terapia medica che prevedeva l’assunzione di diverse pillole e sciroppi a seconda del periodo dell’anno e diverse volte al giorno. Tra gli ingredienti troviamo la lavanda, la salvia, il miele rosato, il ravanello, la cicoria e l’immancabile teriaca (ne parleremo nella prossima sezione).
  3. Un terzo medico, ci propone anche consigli sul posto dove vivere (meglio una casa lontana da paludi e con un buon clima… sì ma sai che IMU?), di mangiare i cibi tiepidi, diluire il vino, rinunciare alle spezie e, come prima, darsi una calmata coi vari vizi carnali e non.

Quale di queste terapie è corretta secondo la moderna medicina? Praticamente nessuna, in quanto la gotta prevede di non consumare troppi cibi ricchi di “purine”, precursori dell’acido urico, come le frattaglie, pesce e pollame, e prevede una terapia con farmaci impossibili da ottenere nel medioevo, tranne l’estratto di un fiore chiamato croco che contiene la colchicina, efficace nella gotta e che in effetti trovava uso nei dolori articolari già prima di Cristo. Ovviamente, non lo troviamo in queste prescrizioni (mai ‘na gioia).

Il mal francese, rimedi d’alto mare e non solo

L’altro terribile morbo che sancì per convenzione la fine del Medioevo, insieme alla polvere da sparo, la scoperta dell’America e la caduta dell’Impero d’Oriente, fu “il mal franzese”: l’infezione da treponema nota con il termine Sifilide, portata in Italia dai soldati di Carlo VIII, a fine ‘400, e prima ancora direttamente dall’America dall’equipaggio di Colombo e successivi.

L’opera del veronese Fracastoro sulla Sifilide, un best seller del 1500

Si tratta di un’infezione inizialmente venerea che, dopo molti anni, può portare a morte il paziente attraverso fasi con disturbi cutanei e poi neurologici. Decine di medici ritengono che questa malattia sia un flagello sui peccatori, data la trasmissione sessuale, e inizia una vera e propria produzione letteraria che si pone l’obiettivo di trovarne causa ma anche cura. Avendo parlato nel precedente articolo dei barbieri-chirurghi, uno di essi di nome Pietro di Porto proponeva, per la cura della sifilide, di spalmarsi grasso di porco, biscia e cavallo, mercurio e ossido di piombo, cera e acqua di rose, per qualche giorno. E l’immancabile “stai tranquillo e non fare l’amore” (che magari infetti qualcun altro).

Per la lombalgia invece, Pietro ci suggeriva di procurarci una canna tagliata da piazzare con una estremità sui lombi, professando una brevissima preghiera corroborata da segni di croce. Tutto con l’aiuto di un bambino che facesse altrettanto, tenendo sui suoi lombi l’altra estremità della canna, forse per trasferire il malanno su di lui?!

L’armamentario di castronerie non finirebbe qui e non riguarderebbe solo i sanitari liguri, sebbene qualche intuizione qui e là vi fosse (vi furono alcuni, ad esempio, che si opposero allo stimolo galenico del pus). E, ad ulteriore complicazione, aggiungiamo che spesso alcuni cittadini comuni dispensavano consigli medici con la stessa autorevolezza dei medici consolidati (800 anni prima di Facebook, pensate!). Oggi abbiamo imparato che la scienza medica era imprecisa, ma fa strano vedere un dottore di legge del ‘300, Bartolomeo di Jacopo, fornire una quindicina di rimedi diversi per patologie che spaziano dalla febbre all’epistassi, e che esso viene citato in un grosso “prontuario” medico ligure, di autore anonimo (Medicinalia Quam Plurima).

Trattandosi di una repubblica marinara, Genova doveva armare di sostanze medicamentose anche le sue galee da guerra. Inizialmente, la fornitura dei farmaci avveniva presso le farmacie conventuali, le più fornite, per poi estendersi anche a quelle private. Verso la prima metà del 1600 fu creata anche una “spezieria” situata alla darsena. Dato che, a partire dal tardo medioevo, le galee genovesi iniziarono a impiegare rematori prigionieri (dopo i poco pagati “buonavoglia”), possiamo immaginare condizioni igieniche devastanti che imponevano la presenza di farmaci a bordo, tra cui le “erbette” a funzione catartica e lassativa, lo zucchero e la rosa oltre ai farmaci destinati ai feriti e a coloro che si ammalassero per il viaggio. Immancabili a bordo due prodotti di uso anche sulla terraferma: la teriaca e l’olio di scorpione.

L’origine della teriaca, ritenuta una vera panacea, è dell’epoca classica, ma trova il suo fulgore nell’epoca neroniana, e nacque come rimedio per l’avvelenamento da serpenti per poi estendersi letteralmente verso ogni malanno. Inizialmente era composta da quattro gruppi di “semplici” (piante medicinali e il medicamento che da esse si estrae): un gruppo che includeva sostanze catartiche o toniche, antipiretiche o astringenti, un gruppo di sostanze eccitanti, un tonico/edulcorante e per finire sostanze oppioidi che hanno un potere sedativo. Ai quattro gruppi venivano sommati tre minerali e poi si prese ad aggiungere anche la carne di vipera lessata e stagionata, nel cui caso genovese doveva essere una vipera femmina senza uova che possibilmente doveva essere catturata lontano dal mare, o avrebbe messo sete al paziente (… Sì certo, sarà ben quella…). Potete immaginare quindi come ci fosse un business sul commercio di vipere, addirittura col Nordafrica. Rimasta nel prontuario per secoli, fu Napoleone a vietarne l’uso, che sparì nel corso del XIX secolo.

L’olio di scorpione, un infuso di olio, tormentilla, euforbia, trementina, castoreo, quasi 200 scorpioni e due belle vipere femmine, fatto tutto bollire con aggiunta di zedoaria e rabarbaro, serviva da antidoto e antibiotico (almeno era inteso così. Non sarò io a provarlo oggi, alla prima tonsillite).

Altri rimedi curiosi sono la “confezione giacintina” (solo per ricchi in quanto formata da polvere di pietre preziose!), il corno di cervo, l’ossimiele (miele e aceto, forse l’unica cosa che avesse davvero un senso), l’unguento egiziaco (verderame, allume, miele e aceto, adoperato per la cura delle ulcere, anche questo con un parziale senso), olii di ogni genere tra cui quello di rosa, la trementina (una sostanza estratta dalla resina e molto usata come vasodilatatore) e centinaia di altre sostanze. Tra le tante ricette pervenute soprattutto negli atti notarili, un infuso di melograno e zucchero per la diuresi (modestamente sensato), la liquirizia per il catarro (di nuovo moderatamente sensato) e centinaia di altri rimedi che oggi troviamo a buon diritto nelle caramelle balsamiche. Per la scabbia (la famosa “rogna”) vengono prescritti unguenti con miele, sale, mercurio, zolfo, trementina e altre sostanze che, quantomeno, avrebbero irritato o ucciso il parassita responsabile. Questo per non bollare tutto come completamente campato per aria.

Per tornare però ai cari vecchi rimedi grotteschi, non possiamo non citare quello che viene indicato per il dolore all’utero, nella zona di Ventimiglia: se il dolore è nella parte alta, far bere alla donna vino e succo di piantaggine (così si ubriaca e smette di lamentarsi…?). Se il dolore è più basso (cervice), fare dei tamponamenti di tal mistura “laggiù” oppure delle fumigazioni con pigne verdi arroventate (!!!). Sipario su quest’ultimo rimedio.

Lo stile di vita sano

Con il termine “regimen” si intendeva sia la dieta alimentare che i consigli per una vita sana, da seguire. Ogni medico qui spaziava dal togliere o aggiungere alimenti più o meno a caso e organizzare la giornata in un certo modo, ad esempio raccomandando di lavorare solo al mattino (bravo!) e di fare passeggiate non più lunghe di mille passi dopo pranzo, condite da un bel pisolino alla fine. Per gli alimenti erano tutti concordi di non mangiar troppo ma di non aspettare la fame (che avrebbe generato cattivi umori), mentre sono diversi i medici che si scagliavano contro i pesci o alcune carni, o che raccomandavano di non mangiare il pane cotto in giornata (ma perché???).

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I consigli del  Regimen Sanitatis Salernitanum del 1480

Naturalmente ogni regimen poteva essere adattato al ceto del paziente. Ecco che Ambrogio Oderico raccomanda di mangiare i cibi in vasellame d’oro o argento che fa bene, e di indossare un bell’anello con smeraldi o rubini di valore. Grande preoccupazione era la potabilità dell’acqua, cosa che non stupisce data l’altissima mortalità delle gastroenteriti da contaminazione fecale, capaci di uccidere anche re come il povero Luigi IX di Francia. Il consumo di cibi o bevande di qualità scadente o una dieta poco variegata erano problemi connessi con il ceto dei pazienti che i medici, perlomeno coloro che hanno lasciato scritti, non sembravano curarsi, preferendo dare consigli a coloro che potevano permettersi anelli con rubini, come sopra.

I farmacisti (speziali) genovesi nel medioevo

Per quanto riguarda i farmaci, molti erano prodotti fai da te dal medico, che poteva custodirne gelosamente il segreto, oppure acquistati dall’antenato del farmacista: lo speziale / apotecario, che secondo lo statuto del Collegio dei Medici della Genova Medievale, poteva fornire farmaci ai pazienti solo su prescrizione medica (spoiler: qualcuno lo faceva anche senza, l’avreste mai detto?). Coloro che lavoravano negli apotecari (le odierne farmacie, con una contaminazione verso le drogherie) non potevano nemmeno “associarsi” con un medico specifico a fini di monopolio sanitario, anche se viene da immaginare quanto fosse possibile aggirare tale divieto.

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Un apotecario – Norimberga, XVII secolo (autore anonimo)

Gli speziali genovesi erano raggruppati in un ordine professionale (potentissimo) assieme ai droghieri (allora detti “aromatari”) e ai confettieri: “Artis Aromatariorum sive Spectiariorum ac aliorum hominum dicte artis”. A Genova, dunque, vi erano due tipi di speziali nel medioevo: coloro che producevano e vendevano farmaci e quelli che oggi chiameremo droghieri. Sulla confetteria possiamo dire che non c’entrano i matrimoni: ai tempi spettava a lei la creazione dei dolci a lunga conservazione, come caramelle e confetti, ottenuti ricoprendo di sostanze dolci semi e altre cibarie. Tali pietanze erano considerate terapeutiche già dall’epoca classica. Perché unire le due arti in una singola corporazione? Perché gli speziali e gli aromatari utilizzavano le medesime piante e sostanze sia per uso terapeutico che come condimenti o ingredienti alimentari.

Nella Repubblica di Genova, l’arte farmaceutica era retta da due consoli, uno per categoria, eletti ogni anno, ed era naturalmente dotata di statuto magistrale di cui ci resta una versione di fine 1400. Esattamente come avveniva per i medici, si stabilì che nessun forestiero o genovese potesse aprire un’apotecario/spezieria se non avesse esercitato il mestiere per almeno sei anni, previo esame da parte con una commissione altisonante formata dal Collegio dei medici, dal Console e consiglieri degli Speziali e da membri sindacatori della stessa Compagna Communis (Repubblica).

Lo speziale propriamente detto (non il droghiere, quindi), doveva produrre personalmente i farmaci e raccogliere personalmente gli ingredienti, non di rado immagazzinati in ampolle senza etichettatura (leggiamo in alcuni testamenti), immaginiamo forse per proteggerle da eventuali abusi e furti. Lo statuto dell’ordine è molto ferreo su alcune cose, come i passaggi per la preparazione della teriaca, già menzionata prima: i suoi componenti dovevano essere esposti per almeno otto giorni nella bottega, a disposizione dell’autorità comunale che poteva compiere un’ispezione.

Gli incantamenti e la superstizione

Dulcis in fundo, inutile dire quando magia e astrologia fossero intrecciate con la medicina. Iniziamo allora con un farmacista. Che gli speziali sgomitassero coi medici per la prescrizione delle terapie non ci stupisce: anche oggi basta entrare in una farmacia sbandierando qualche sintomo blando per ricevere immediatamente un “consiglio” dal farmacista. Quello che farebbe ridere oggi sarebbe il ricevere tale avviso da uno come Tommaso di Murta, speziale genovese, che affermava di aver appreso un rimedio contro la peste da un frate di Milano, il quale a sua volta lo aveva ottenuto (o estorto) in confessionale da… una vecchia strega meneghina! La quale consigliava di confezionare un amuleto cartaceo imbrattato di mercurio da indossare sotto i vestiti e rigorosamente preparato di mercoledì (giorno di Mercurio, appunto).

Per il morso di un cane rabbioso, un medico ligure cita il “quadrato del sator”, una locuzione palindroma latina (notata anche da Christopher Nolan nel suo film Tenet):

S A T O R
A R E P O
T E N E T
O P E R A
R O T A S

Potete leggere tali parole da sinistra a destra o dall’alto in basso e saranno sempre le stesse 5. Carino vero? Sul significato (mai compreso) vi lascio ricercare da soli. Tornando all’atto medico, tale formula, per la rabbia, andava incisa su una crosta di pane rigorosamente rotonda e data da mangiare all’individuo morso. Vi segnalo solo che il lyssavirus della rabbia uccide al 99% in 1-2 settimane, in assenza di tempestivo trattamento post-morso. Non capisco, quindi, come si potesse anche solo sospettare come efficace questa terapia astrusa. Il quadrato ebbe altri molteplici usi in tutta Europa: inciso su un architrave avrebbe protetto la casa dal fuoco e dai fulmini, e poteva anche essere confezionato in un amuleto per aiutare una donna a partorire.

Ma la magia non finisce qui. Sanguinamento dal naso? Prendete un po’ di questo sangue e scrivete una formula magica sulla fronte (“agla, aglala, aglalata”! Harry Potter scansati). Flusso mestruale problematico? Scrivi, ma col sangue di una pollastra che non abbia mai deposto uova, la frase “consummatum est” (le ultime parole di Cristo in croce) sui polsi e le tempie della donna. Bleah.

La domanda è spontanea: il medico credeva in questi rimedi? Probabilmente no. Pietro d’Abano, infatti, diceva chiaramente che questi incantesimi vanno istituiti “per conquistarsi la fiducia del paziente e influire sul suo spirito”. Insomma, il famoso effetto placebo.

E la preghiera? Diffusa, comune e totalmente prescritta in molteplici fogge. Parto difficile? Perché non far sussurrare alla partoriente un “Padre nostro” pronunciato da un verginello? Oppure fabbricare amuleti con preghiere varie? Magari fondendo tutto con la già abusata astrologia?

Conclusione

La terapia medievale ci mostra intuizioni corrette che poi si perdono nel marasma del misticismo e dell’eccessivo rispetto dei classici e in questo nemmeno i medici liguri ne furono immuni, trovandosi spesso a condividere il sapere con altre figure non-sanitarie.

Concludiamo il capitolo rimandando al successivo: gli ospedali a Genova nel Medioevo! Grazie e a presto!

Bibliografia essenziale

  • Balletto, L., (1986) “Medici e Farmaci, scongiuri e incantesimi, dieta e gastronomia nel medioevo genovese”, Collana storica di fonti e studi
  • Caneva, G., (1977) “L’arte degli speziali sulle galee genovesi”, La Casana
  • Cosmacini, G., (2003) “La vita nelle mani: Storia della chirurgia”, Laterza
  • Cosmacini, G., (2011) “L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi”, Laterza
  • Hryszko, R., (2021) “Le radici medievali della Confetteria Italiana” Uniwersytet Jagielloński Instytut Historii
  • Marchesani C., Sperati G., (1981) “Ospedali Genovesi nel Medioevo”, Atti della Società Ligure di storia patria
  • Palmero, G., (2007) “Ars medica e terapeutica alla fine del Medioevo. Il caso genovese”, Nuova rivista storica
  • Pesce, G., (1951) “I medici di bordo ai tempi di Cristoforo Colombo” Civico Istituto Colombiano

Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri: quando fai un 20 ma non basta. La mia recensione

Il sorprendente film di Paramount intrattiene e fa sorridere, ma non supera le forche caudine del Box Office. Eppure è un film meritevole di visione e non solo dagli appassionati del gioco di ruolo. Ecco la mia recensione, senza spoiler.

Eravamo quattro amici al tavolo: storia breve di D&D

Quella di Dungeons & Dragons (D&D o DnD) è stata una vita piena di avventure, le stesse che, da metà anni ’70, hanno stimolato la fantasia di milioni di giocatori. Manifesto della comunità nerd fantasy di derivazione tolkeniana, ha visto il massimo fulgore tra la fine degli anni ’80 e quella degli anni ’90, dopo aver subito un incredibile contraccolpo dai giochi di carte collezionabili come Magic o Pokémon.

La mitica “Scatola Base” con cui moltissimi hanno iniziato negli anni ’80 e ’90

Chi vi scrive ha fatto il Dungeon Master per quasi 15 anni in quel periodo d’oro e, per citare le parole del protagonista del film Chris Pine, “è un gioco che a scuola dovrebbero giocare tutti”.

Per coloro che non sapessero nulla di D&D, si tratta di un gioco di ruolo “pen and paper”: ci si riunisce attorno a un tavolo come per giocare a Monopoli ma non c’è tabellone: ognuno interpreta un personaggio di fantasia in un mondo medievaleggiante con draghi, orchi e magia, in diverse ambientazioni totalmente customizzabili e pure inventabili di sana pianta. Uno dei giocatori diviene il “Dungeon Master” (DM), che funge da inventore, narratore dell’azione e collante di una serie di “avventure” durante le quali i personaggi diventano sempre più potenti, esattamente come nei classici videogiochi stile Dragon Age, Final Fantasy o Pillars of Eternity, per citare i più moderni. Non c’è tabellone, dicevo, ma ogni giocatore ha una scheda del suo personaggio con caratteristiche peculiari: un barbaro sarà forte e abile con le armi, mentre un mago sarà intelligente ma pessimo nel corpo a corpo. Ci sono i dadi, che hanno da 4 a 20 facce: tirandoli e aggiungendo o sottraendo dei modificatori specifici dei personaggi, ogni giocatore può far compiere al suo alter ego virtualmente ogni azione, dall’attaccare con la spada a lanciare un raggio mortale. Ecco che ogni giocatore può recitare un ruolo come se fosse in uno spettacolo teatrale, immaginando tutto ciò che il DM descrive basandosi sul tiro dei dadi e sulla storia che fa vivere ai giocatori.

Troppo difficile da capire? Scoprite se avete qualche amico che ci gioca e andate a vedere, una sera. Resterete sorpresi 🙂

Veniamo al film! (niente spoiler)

Ambientato nei blasonatissimi Forgotten Realms, D&D – L’onore dei ladri (D&DLdL) ci porta una classica “quest” avventurosa dove uno scalcinatissimo gruppo di avventurieri – in un mondo medievaleggiante – cerca di salvare una ragazza da un astuto furfante che si è alleato con potentissimi e oscuri individui. Quello che colpisce di D&DLdL è l’estrema ironia fin dalla primissima scena. Esistono solo due momenti seri in tutto il film, ma si sposano perfettamente con tutta la leggerezza di una trama totalmente cliché, che serve unicamente a far salire sul palco la caratterizzazione – eccellente – dei singoli membri del gruppo di avventurieri.
In questo, L’onore dei Ladri è riuscito a far dimenticare il primo terribile film di D&D del 2000, grazie a un budget più elevato e al maggiore ricorso all’ironia, ma soprattutto alla maggiore aderenza con il caro gioco di ruolo da tavolo.

I quattro protagonisti del film Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri

Se gli appassionati troveranno ampie citazioni attinte a piene mani dai manuali (dalle mani di Bigby alle belve distorcenti), anche chi ama semplicemente commedia e azione incontrerà poco più di due ore di intrattenimento e sorrisi. Questo perché D&DLdL spesso dissacra il gioco di ruolo stesso canzonando miti come i draghi invincibili o seriosi paladini, trasformati in personaggi comici loro malgrado. In questo modo, il film decide di non mettersi minimamente a concorrere coi mostri sacri del genere: Conan, il Signore degli Anelli, The Witcher o il Trono di Spade, perché l’ironia becera in stile Vox Machina del film Paramount non sconfina mai nella narrazione aulica. E proprio per questo motivo D&DLdL vince a mani basse: perché si scava una sua propria nicchia nel genere Fantasy e consegna a tutti la risata che finalmente ci meritiamo dopo elmi cornuti, nozze rosse, incesti, decapitazioni, orfani albini da proteggere e trekking estenuanti verso vulcani.

Sciocco e infantile? Tutt’altro. D&DLdL ci consegna comunque cattivi spietati e e un’attenta caratterizzazione dei protagonisti, sempre perfettamente nel loro ruolo nonostante le dozzine di battute di alleggerimento che pronunciano. E un curioso ruolo di Hugh Grant in spolvero dopo l’epoca d’oro delle commedie romantiche.

In sintesi

D&DLdL è una commedia fantasy che convince e sa intrattenere i palati fini che vengono dal GdR, ma pure chi vuole passare due ore facili in un mondo fantastico e ironico. Purtroppo, il box office non ha premiato il film nonostante le ottime recensioni, e questo ci porterà forse a non vedere mai un sequel. Ma forse è meglio così, in modo che questa pellicola resti ferma nella sua bellezza, senza rovinarsi in saghe trascinate come altri franchise (vedi Pirati dei Caraibi).

Medici e Chirurghi nella Genova Medievale – Seconda Parte: barbieri e cerusici

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Benvenuti nella seconda parte sulla vita e attività dei medici e chirurghi a Genova nel Medioevo. Se vi siete persi la prima parte, dove affrontavamo vita e compensi dei medici “physici”, potete trovarla qui oppure nell’ottimo sito Genova Medievale. A questo indirizzo troverete la terza parte sulle terapie e i farmacisti. Per finire, qui trovate la parte sugli ospedali genovesi.

Dopo aver parlato dei medici propriamente detti e di come, a Genova, non fossero stati trattati inizialmente in maniera né troppo benevola né lautamente remunerati, meritano ora adeguata menzione coloro che maneggiavano le lame, e non mi riferisco ai soldati.

Chirurghi e barbieri a Genova nel medioevo

La chirurgia è una disciplina che esiste dalla preistoria e ha seguito lo sviluppo umano di pari passo. Nel paradosso di essere considerata dai dotti physici un’arte minore, è forse quella che più di tutte ha subito progressi e trasformazioni nei secoli, che la medicina “interna” vedrà ingenti solo a partire dalla scoperta dei batteri. Inizieremo con una visione d’insieme del chirurgo medievale e poi vedremo come si comportavano i chirurghi genovesi.

La “Medicina Esterna” tra dotti e praticoni

Dato che abbiamo citato il papa-medico Pietro Ispano sparlare dei medici, non possiamo non chiamare al banco dei testimoni anche un chirurgo medievale, il fiammingo Thomas Scellinck, e leggere come descrivesse i colleghi. Egli scrisse:

“La maggior parte dei chirurghi sono ignoranti […], spacconi, gradassi e truffatori, che cercano sempre di calunniare i chirurghi sapienti.”

Non molto gentile, dunque. Mentre il collega Jan Yperman, sempre nel periodo medievale, definisce la sua figura di chirurgo ideale:

 “Il chirurgo deve avere delle ottime mani e delle dita affusolate. Egli sarà di corporatura robusta, e non si dovrà mai lasciare vincere dalle emozioni. Egli avrà vista sicura, idee costantemente chiare […]. Non deve conoscere solo la medicina, ma i libri sulla natura e sulla filosofia […]. Egli non adulerà se stesso, […] consolerà sempre il paziente, […] dai ricchi chiederà ingenti salari, dagli altri quanto possono pagarlo a seconda delle loro finanze, e curerà i poveri per l’amor di Dio che gliene ha dato la possibilità.”

Rincuorati dalle sue parole, proviamo a cercare ulteriore riscatto della categoria leggendo le parole di uno dei chirurghi più famosi del medioevo, Henri de Mondeville:

“I medici [intende i physici, NdR] non fanno altro che ciarlare” (quindi non si sporcano mai le mani), mentre i chirurghi “sono superbi e pomposi” ma “totalmente ignoranti. […] Non vedo tra i miei colleghi nessun chirurgo che sia incline allo studio; pochissimi sono letterati; se ce ne sono, o sono in numero esiguo oppure sono interamente avidi di denaro.”

Perché tanto accanimento da parte degli accademici? C’è un motivo. Vediamolo insieme.

I barbieri-chirurghi

L’arte chirurgica, considerata un “male necessario” dalla casta snob dei sanitari togati e non particolarmente amata dalla Chiesa (che la lasciava nelle mani degli Ordini minori), nella prima fase del Medioevo era esercitata per lo più da barbitonsori o barbieri chirurghi illetterati che, tra un taglio di capelli e una spuntata alle unghie, si dilettavano anche in salassi, riduzione delle fratture, incisioni di ascessi ed estrazioni dentarie. Erano assistiti dai loro “garzoni” ovvero i barbierotti, che ne apprendevano l’arte per poi esercitarla a loro volta. Privi di qualsiasi accademia ma, più o meno dal tardo ‘200, dotatisi di ordini professionali ben strutturati, i barbieri chirurghi imparavano l’arte usando gli animali o gli stessi pazienti come campo di addestramento, non di rado essendo analfabeti o comunque privi di specifici testi di riferimento fino al tardo medioevo/rinascimento. Per questo, il chirurgo era il grande sperimentatore del suo tempo, talvolta a scapito dei pazienti a lui contemporanei ma, aumentando le sue capacità e conoscenze, a beneficio di quelli futuri.

Curiosamente, l’odierna insegna dei barbieri, ovvero il palo a strisce bianche e rosse (oggi rotante e anche blu), deriva proprio dall’origine sanitaria di questa categoria. Veniva infatti esposto da quei barbieri-chirurghi che praticassero i salassi; un paletto veniva fatto stringere dal paziente per distendere le vene e il bianco e il rosso rappresentavano le garze insanguinate; la spirale era forse un riferimento al serpente avvolto al bastone di Asclepio, ancora oggi simbolo dei medici, o al doppio serpente del caduceo di Hermes, emblema dei farmacisti (simboli tuttora ampiamente confusi tra loro).

Il palo da barbiere esposto fuori da una bottega
kim traynor / Barber’s pole, Drummond Street / CC BY-SA 2.0 – Wikimedia

Le operazioni chirurgiche e le specializzazioni nel Medioevo

Il chirurgo di qualsiasi foggia, inizialmente, non godette di ottima fama. Secondo Mondeville, ciò era dovuto alla sua attività sanguinolenta, tanto da spingerlo a pratiche turpi – da linee guida medievali –  come assaggiare il sangue dei pazienti proprio come il medico faceva con l’urina (eww!).

Eppure, non bisogna (necessariamente) immaginare il chirurgo medievale come un macellaio voglioso di aprire pance: gli spettavano più che altro lesioni odontoiatriche, urologiche, ortopediche o cutanee (es: fistole, cisti ecc.). Varie, infatti, erano le patologie che richiedevano comunque un doppio approccio medico-chirurgico, ad esempio i diffusissimi calcoli renali (il “mal della pietra”). È facile immaginare che le operazioni chirurgiche che oggi chiameremmo “open”, non potevano avvenire con la frequenza odierna e anzi, nel caso dei trattati sulle ferite belliche, spesso si esortava il curante a lasciare la perforazione dell’addome “nelle mani di Dio”, perché un intestino perforato o necrotico era causa di morte quasi certa. Però, grazie ai paleontologi, sappiamo che le trapanazioni craniche si effettuavano da tempi preistorici e che il paziente non di rado sopravviveva anni dopo tale intervento, nel medioevo molto praticato non solo per alleggerire eventuali raccolte di sangue pericolose, ma anche –  perché no –  per allontanare ipotetici demoni dalla testa di pazienti evidentemente escandescenti.

Esempio di trapanazione cranica nella Siberia pre-nascita di Cristo. Il paziente sopravvisse anni dopo l’intervento, come si vede dall’orletto di osso neoformato attorno al sito di trapanazione.
Fonte: Institute of Archaeology and Ethnografy of the Siberian Branch of Russian Academy of Sciences

Odiernamente, il chirurgo si specializza in qualcosa (come il neurochirurgo). Se è vero che nel medioevo “tutti cercavano di saper far tutto”, anche all’epoca si crearono comunque piccole aree di eccellenza: nel ‘400, a Norcia e nel borgo di Preci, si sviluppò una scuola di chirurgia “autoctona” ed “empirica”, specializzata in particolare in chirurgia oculistica (per la cataratta, vi risparmio la descrizione della tecnica medievale per amor vostro), nelle ernie inguinali e nella litotomia (rimozione dei calcoli renali). In zona si praticava anche la chirurgia veterinaria (castrazione di animali) e si sviluppò quindi una scuola laica. Alcuni chirurghi norcini/preciani guadagneranno la fama nelle corti di mezza Europa.

Nel ‘500 poi, inizia anche un incredibile viaggio nella chirurgia ricostruttiva, con la rinoplastica secondo Gaspare Tagliacozzi, affascinante quanto geniale tecnica usata fino al 1800, usando un pezzo di cute del braccio per ricostruire il naso, separando il lembo di pelle dall’arto solo dopo alcuni giorni, in modo da attendere che fosse vascolarizzato adeguatamente dal viso (non fosse chiaro, l’immagine sottostante descrive meglio).

La rinoplastica secondo Tagliacozzi. Ti attacco un braccio in faccia per un mese e il tuo naso è come nuovo!
Fonte: De curtorum chirurgia per insitionem, 1597, di Gasparo Tagliacozzi 

Il chirurgo laureato

 Appreso quanto la chirurgia fosse un’arte complessa, alla categoria dei praticoni improvvisati si affiancarono nel tempo figure accademiche: il cerusicus / cirurgus / surgicus “puro” (che spesso spillava ai nobili qualche soldino sonante) o il “medicus praticus” più alla mano, che faceva un po’ da physicus (il medico teorico) e un po’ da cerusicus e dispensava la sua arte tra la popolazione più variegata.

Dal 1200 si assistette poi a un netto cambio di passo nella considerazione del chirurgo. Prima di allora, a Genova, egli era considerato un consulente del physicus: prendeva ordini e prescrizioni solo dal medico per legge, anche se l’attività “in nero” era estremamente diffusa. Dalla scuola francese e italiana sorsero individui di incredibile levatura come Guglielmo da Saliceto, Ugo de’Borgognoni e suo figlio Teodorico, Henri De Mondeville, Guy de Chaulliac, fino al geniale barbiere Ambroise Paré del 1500, quando i grandi atenei erano fucine di chirurghi togati capaci di scrivere interessanti manuali e trattati diffusisi in tutta Europa. Anche gli arabi andalusi ebbero in Albucasi il loro degno rappresentante, anche se paladino strenuo della cauterizzazione (ahia!). Nel 1490, l’università di Parigi aprì le porte anche ai barbieri chirurghi, nobilitando quindi le loro esperienze e aiutando l’umanità a consacrare i talenti tra loro presenti.

La “prima” anestesia

Oggi, spalla imprescindibile del chirurgo in sala operatoria, l’anestesista può vedere in Teodorico de’Borgognoni (che però riprese la formula da un precedente medico) un suo antesignano. Ci portò la ricetta della famigerata spongia somnifera, oggi per fortuna sostituita da migliori e più sicuri anestetici. Eccola:

  • “Si prendono queste cose: mezza oncia di oppio tebaico, otto di succo della verde erba di Matala; tre di succo di verde giusquiamo; di succo di mandragola (tratto) dalle foglie spremute, mezza oncia trita; raccogli così per mezzo di una spugna in una unica pasta, e diligentemente lascia asciugare. Quando vorrai farne uso per mezzo della stessa spugna, per un’ora immergila in acqua calda e avvicinala alle narici, ed avvertirai il paziente che da sé stesso assorba quell’es­senza, per dormire a lungo; e quando lo vorrai risvegliare, applicherai alle sue narici un’altra spugna, imbevuta di aceto scaldato, e potrai così scacciare il sonno.”
La spongia somnifera, la migliore amica dell’anestesista trecentesco.
Miniatura dal Post Mundi Fabricam, codice francese del XIV secolo.

Con questo mix di oppio e alcaloidi, il paziente si addormentava (anche per sempre, se il dosaggio era errato) e il chirurgo poteva esercitare indisturbato la sua arte. Fino alla scoperta dell’etere dietilico, oppio e altre sostanze furono le sole usate in anestesia, mentre sulla classica scena da film del ferito che si scola il whisky e poi si fa operare, dai documenti di medici storici evinciamo che bere grosse quantità di alcolici prima di un’operazione fosse anche sconsigliato. Ovviamente, possiamo presumere che sarà pure capitato, nelle migliaia di operazioni compiute in setting non raccontati dalla letteratura, ma quest’ultima per lo più lo sconsigliava.

La situazione del chirurgo genovese

Sulla componente vulneraria, a Genova la presenza di medici specialisti in ferite (medici vulnerum) si riscontra fin dal XII secolo. In una repubblica marinara come quella, non stupisce che si facesse anche un uso nautico dei medici. Durante la navigazione si poteva essere feriti in molti modi: per abbordaggi (o ammutinamenti) ma anche per le normali manovre atte al governare una nave: schegge di legno, sfregando il cordame sulle mani, ustionandosi, ferendosi con utensili o cadendo dagli alberi stessi dell’imbarcazione. L’esigenza di un medico di bordo era quindi tutt’altro che secondaria, ma trovare qualcuno voglioso di imbarcarsi non era semplice.

Se la medicina togata e accademica aveva trovato una sua componente elitaristica a Genova, iniziamo a immaginare che questo avvenisse anche per i chirurghi dotti, che volevano distinguersi dai barbieri. Lo evinciamo, ad esempio, nel contratto per approntare una flotta di quaranta galee, stipulato nel 1337 tra i genovesi e Filippo VI di Valois, nell’eterna lotta contro gli inglesi. Notiamo come l’ammiraglio avrebbe avuto a disposizione sulla sua nave il “professorone”: un maestro chirurgo laureato (con l’ottimo stipendio di 10 fiorini al mese). Mentre su tutte le altre imbarcazioni sarebbero stati presenti “i chirurghi di serie B”: un barbiere e un barbierotto buonavoglia, incaricati della salute dei marinai. I buonavoglia erano persone che venivano pagate per eseguire i più umili compiti di bordo, tra cui remare (schiavi e carcerati iniziarono a essere forzati al remo solo verso la fine del medioevo genovese) e tale barbierotto proveniva proprio da quella ciurma di volenterosi o disperati.

Sull’attività dei barbieri di bordo genovesi non venivano di certo spese parole di stima, arrivando anche ad “accusarli” di causare morti per loro imperizia. La presenza di medici physici a bordo era invece più sporadica e dovuta all’assistenza dei naviganti senza necessità chirurgiche e per ispezionare le derrate alimentari, mentre ai chirurghi era lasciata tutta la parte della cura delle ferite, drenaggi di ascessi e fistole e ogni cosa per cui il medico avrebbe storto il naso. Nei documenti è noto che il barbiere di bordo avesse un suo “forziere” pieno di strumenti e ingredienti: sanguisughe, grassi animali, bende e olii vari.

Notare la faccia perplessa del paziente.
Fonte: Chirurgia Practica di Ruggero Da Salerno

Eppure, la penuria di sanitari a bordo si evince da “una supplica fatta dal Collegio dei Medici di Genova al Doge, nell’intento di ricordargli che l’obbligo di fornire per il servizio delle armate e delle galee uno o più medici era praticamente inattuabile se questi medici non ricevevano il dovuto compenso mensilmente e non a servizio compiuto”, anche perché, vista la perigliosità della navigazione medievale, non sempre si arrivava vivi in fondo al viaggio. Intuiamo, quindi, come la Compagna Communis Genuensis non nutrisse grande stima di questi professionisti.

I chirurghi tardomedievali genovesi, dunque, vivevano in quella tipica commistione coi barbieri. Tale confusione si ripercosse anche nella creazione degli ordini professionali: a Genova, chirurghi e barbieri finirono tutti nella stessa associazione professionale, la Ars chirurgicorum ac tonsorum, la cui chiesa era dedicata ai santi-medici Cosma e Damiano, ancora oggi uno dei luoghi di culto più graziosi del centro storico. Non è un caso, visto che una leggenda vedrebbe i due santi addirittura come i primi ad aver eseguito un trapianto di gamba…
Tale commistione durò fino al 1600, secolo in cui il barbiere venne sempre più estromesso dall’arte chirurgica e gli venne lasciata solo la parte igienica e la cura dei poveretti.

E la formazione? sappiamo che l’apprendista barbiere genovese doveva esercitarsi per sei anni (curiosamente, è la durata dell’odierno corso di laurea in medicina e chirurgia; al medico invece “bastavano” quattro anni): si iniziava a lavorare a quattordici anni fino circa ai vent’anni di età prima di potersi mettere in proprio, a distanza di “quindici case” dal maestro, onde evitare la concorrenza. La corporazione, naturalmente, replicava quella medica ed era richiesto un esame (e una quota in denaro) per entrarvi, obolo previsto anche per i forestieri che si fermassero ad esercitare nella Repubblica per più di due settimane. Il loro esercizio, poi, non era solo in bottega ma anche ospedaliero, talvolta senza compenso, giusto per farsi una base-pazienti da seguire poi privatamente.

Un esempio di chirurgo medievale ligure

Non possiamo chiudere il capitolo sui chirurghi medievali genovesi senza parlare di Giovanni da Vigo, anche detto “Giannettino il Genovese” dai contemporanei. Nato nella zona di Rapallo, dove esisteva una discreta comunità medica (abbiamo parlato anche delle due “medichesse” nello scorso capitolo) e buoni chirurghi litotomi come il suo probabile maestro Battista da Rapallo, Giovanni divenne chirurgo delle armate papali alla fine del 1400 e poi fu l’archiatra di papa Della Rovere alias Giulio II. Fu anche tra i primi a esercitare la chirurgia presso l’ospedale di Pammatone, oggi inglobato dal tribunale di Genova e sostituito dal Policlinico San Martino dai primi del ‘900.

Giovanni da Vigo e il suo baffetto irresistibile.

Utilizzò macchinari avanzati per l’epoca (e ne inventò uno per la trapanazione del cranio) e batteva spesso la valle del Bisagno in cerca di erbe medicamentose da usare nelle sue preparazioni.

Da Vigo, però, divenne famosissimo per il suo manuale di chirurgia che era un must dei tempi e tradotto in varie lingue: “De practica copiosa in arte chirurgica” dove trattò di decine di patologie, dai polipi nasali, alle fistole, ai “tumori infiammatori”, scrofola e quant’altro. Poi si occupò di due novità del tempo: la prima fu la grande infezione del rinascimento, il “mal franzese” (tra i liguri chiamato “delle tavelle”) oggi noto come Sifilide, di cui sicuramente lo stesso papa Della Rovere – chierico “allegro” e con figli – soffriva. Da Vigo descrisse con cura tutte le orrende fasi della malattia e trattava le lesioni con impiastri di mercurio, zolfo, olii e resine varie, nonché vino: tutte sostanze che hanno effettivamente potere antibatterico. Si nota, anche dalla sua tecnica di fumigazione delle ragadi anali, come il chirurgo rinascimentale non agitasse solo il coltello ma provvedesse anche alla terapia medica delle lesioni esterne.

Il nostro scrisse, nelle sue opere, una guida esplicita per i medici naviganti, e ciò non ci stupisce, essendo cittadino genovese.  Tra gli scritti troviamo una guida sugli ingredienti da portarsi appresso: assenzio, anice, canfora, aloe, ma anche farine di orzo o fave, e gli immancabili minerali, allume, ossido di rame e il litargirio (piombo), poi grassi vari e polvere di mummia!
Sì, proprio quella. La polvere di mummia era un ingrediente prezioso che si riteneva potesse far bene ai tessuti viventi, dal momento che quelli delle mummie mica si decomponevano! Ciò grazie ad alcuni prodotti neri e bituminosi poco facili da reperire e che qualcuno consigliava di estrarre dalle mummie egizie, che venivano tritate, macerate, distillate… e poi bevute o spalmate sulla parte da “curare”. Data la difficoltà nel riconoscere i prodotti autentici, esistevano anche i falsificatori di mummie che usavano raccapriccianti metodi per procurarsi il prezioso “oro nero”, come usare cadaveri freschi lasciati a imputridire dopo “iniezioni di asfalto”.

Tornando al Da Vigo, la raccomandazione per il ferito a bordo era di usare semplici bende di lino senza impiastri vari ma un olio rigenerante “ad incarnandi” che era di consuetudine per l’epoca. Purtroppo, Da Vigo prese un grosso granchio sulle ferite da arma da fuoco, reputando velenosa la polvere da sparo e quindi spingendo a cauterizzare gioiosamente ogni ferita, producendo danni ben peggiori. A “sbugiardarlo” fu un giovanissimo barbiere francese, Ambroise Paré, che trovatosi ad aver finito l’olio per cauterizzare i feriti, si limitò a bendare le loro lesioni dopo un semplice impacco e scoprì che i feriti cauterizzati, il giorno dopo, erano tutti in preda a febbre e dolore mentre quelli bendati no. Da allora giurò che “mai più avrebbe crudelmente bruciato dei poveretti feriti da archibugio”. Ma questa è un’altra storia.

Arrivederci alle prossime puntate, dove vedremo cenni di terapie prescritte dai medici liguri e gli ospedali medievali sul territorio genovese!

Bibliografia essenziale

  • Balletto, L., (1986) “Medici e Farmaci, scongiuri e incantesimi, dieta e gastronomia nel medioevo genovese”, Collana storica di fonti e studi
  • Cosmacini, G., (2003) “La vita nelle mani: Storia della chirurgia”, Laterza
  • Cosmacini, G., (2011) “L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi”, Laterza
  • Palmero, G., (2007) Ars medica e terapeutica alla fine del Medioevo. Il caso genovese”, Nuova rivista storica
  • Pesce, G., (1951) “I medici di bordo ai tempi di Cristoforo Colombo”, Civico Istituto Colombiano
  • Pescetto, G. B., (1846) “Biografia medica ligure del dott. G. B. Pescetto”, Tipografia del R. I. Sordo-muti
  • Dr.Cabanes (1918) “Chirurgiens et Blessés à travers l’histoire. Des origines à la Croix-Rouge.”, Albin Michel

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Medici e Chirurghi nella Genova Medievale – Prima Parte: il medico a Genova nel Medioevo

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Con questa serie di articoli, parleremo di com’era la vita del medico genovese nel medioevo, intendendo per genovese il “cittadino della Repubblica di Genova”, qualsiasi fosse il borgo d’origine.

Prima di addentrarci, dobbiamo fare una doverosa premessa sull’attività dei sanitari nel medioevo. Mi scuseranno gli studiosi se userò un tono talvolta goliardico. Qui potrete trovare la seconda parte dedicata ai chirurghi o la terza dedicata a terapie e farmacisti. Qui invece l’ultima parte sugli ospedali. Buona lettura!

Lavorare come medico nell’età di mezzo

Quando si evoca l’immagine del medico medievale, subito si pensa a una lunga tunica nera, la maschera bianca con il becco, gli occhialoni e un cappello a larghe falde, quasi una maschera per spaventare i bambini.

Ogni volta che un medico medievale viene rappresentato in tal guisa, uno storico della medicina ha una fitta al petto.

Tale immagine erronea (questo abbigliamento si adotterà solo dalla peste del 1600) è uno dei tanti tentativi di chi ha voluto bollare il medioevo come soltanto un’epoca barbara. Eppure, sul tema sanitario dobbiamo parzialmente confermare la barbarie.

Per un paziente medievale c’era ben poco da scherzare con le malattie, ma ancor di più a mettersi sotto le grinfie di un “medico”, poiché la terapia medica medievale è riassumibile con “me la provo a senso e citando i classici: tanto si è sempre fatto così”.
Lo stesso Pietro Ispano, che fu prima medico e poi Papa Giovanni XXI, stilò un elenco di tutte le figure che praticavano la medicina, con la stessa simpatia con cui un anziano primario in pensione parla degli ex-colleghi:

“mulieres ignorantes, obstetrices, rustici, barbitonsores et barberii, aromatari, empirici, medici debiles et vulgares, medici illitterati et vagipulantes medici, chirurghi rurales, insidiatores, falsarii, alchemistae, Judaei et conversi saraceni.”

Bastano pochi termini chiave di questo estratto per capire come il mondo sanitario medievale fosse costellato da ciarlatani, praticoni ed empirici. La medicina era infarcita di riferimenti all’astrologia – oggi ampiamente declassata a folklore ma allora in grande considerazione – empirismo e una buona dose di “ricette segrete che il medico inventava di aver appreso nei modi più fantasiosi, qualcosa di poco credibile tipo “ho trovato un libro in giardino attirato dal tubare di una colomba che recava nel becco un ramo d’olivo”, “me l’ha dettata in sogno San Michele” o “l’ho sentita da un medico veneziano in confessionale ed egli giura di aver guarito torme di gente con essa”. Non è un caso che, dai documenti, si evinca un certo scetticismo generale verso la professione sanitaria.

A dominare l’atto medico era la teoria “umorale” ippocratica, di cui parleremo approfonditamente in un successivo articolo: ribilanciare un ipotetico squilibrio dei fluidi corporei, considerati la causa di ogni malattia che non fosse un colpo di spada o una gamba rotta.

Convocato il medico per guarire un malanno, questi iniziava con una prima ispezione del paziente per capirne tanto i sintomi quanto la sua capacità di pagare. Deciso se agire o se lasciare il malcapitato “nelle mani di Dio” per evitare di aggravare la situazione (o se si riteneva di non essere pagati o peggio essere perseguiti), si esercitava la propria arte seguendo la medicina degli antichi maestri greco-romani, Ippocrate e Galeno per lo più, considerati sacri e innegabili: se oggi si parla di Evidence-based Medicine, allora si sarebbe chiamata Eminence-based Medicine. Coloro che tentavano di opporsi ai maestri venivano spesso additati come blasfemi e attaccati o isolati dalla comunità scientifica. Tali maestri erano tutt’altro che affidabili per alcune terapie, eppure continuarono a essere seguiti fino al XIX secolo.

Tornando all’attività medica, se far diagnosi non era sempre difficile, la terapia rappresentava il momento più casuale e mutevole. Ecco che il malato veniva spesso sottoposto a terapie dannose, abominevoli, sperimentali e pericolose o gli venivano prescritte diete astruse che non facevano altro che indebolirlo.

Ma come si diventava operatori sanitari nel medioevo? Inizialmente non c’era bisogno di una laurea, tanto che leggiamo spesso di privati cittadini che dispensavano consigli e terapie: mi viene da rabbrividire pensando a cosa sarebbe avvenuto con la presenza di internet e i social network. Solo nel basso/tardo medioevo si assistette a una regolamentazione di tale attività. A complicare il quadro, esistevano medici, physici, pratici, barbieri, barbitonsori, cerusici e chirurghi, speziali e quant’altro, di formazione religiosa o laica, che esercitavano avendo studiato in atenei o semplicemente apprendendo l’arte “in bottega”, senza che vi fossero chiare specializzazioni né si capisse il limite delle loro conoscenze. Vi erano naturalmente imbroglioni, idioti e ciarlatani: il termine nasce proprio in ambito sanitario da “ciarlare” + “Cerretano”, borgo umbro da cui per convenzione provenivano gli ambulanti; costoro spesso spillavano soldi a coloro che non potevano permettersi prestazioni di alta qualità.

Un medico mentre osserva in un contenitore l’urina di un malato.  Recueil des traités de médecine (12501260)

Nonostante l’empirismo dilagante, esistevano anche prestigiose università come Padova, Bologna, Salerno, Montpellier o Parigi, che avrebbero sfornato la figura del physicus togatus, contrapposto al “praticus”, il praticone da bottega che però era la figura sanitaria più diffusa, soprattutto per la chirurgia (come diremo nel prossimo articolo).

Dove lavoravano i medici? In bottega, erranti, a corte o negli ospedali. Non di rado, i medici si trasferivano in posti nuovi per esigenze di lavoro, forse anche per l’imprecisione della loro arte o l’aver sterminato metà della loro base-pazienti. Solo quelli di bella fama restavano sempre nello stesso luogo, magari al servizio di facoltosi nobili e prelati.

Il basso medioevo e i medici genovesi

Al di fuori dei centri ospedalieri (a Genova praticamente tutti in mano ecclesiastica), il medico genovese non sembrava proprio godere della stima odierna, come ci ricorda Laura Balletto (v. bibliografia). Attraverso l’analisi dei documenti storici innanzitutto notiamo che, prima dell’atto sanitario, il medico genovese stipulava un contratto (verbale o scritto) con il paziente: il dottore (magister) provvedeva a fornire la prestazione sanitaria e si procurava o pagava di tasca propria i farmaci per il paziente e solo in caso di guarigione/sollievo dei sintomi veniva remunerato; a volte era proprio specificato da contratto cosa si intendesse per guarigione (es: “essere nuovamente capaci di stendere il braccio e portarlo alla bocca, stringendo il pugno”). I contratti potevano prevedere anche una scadenza per cui si pagava solo se la guarigione fosse avvenuta entro una tal data, oppure il salario avrebbe potuto essere posticipato o rateizzato. Ancora, in caso di malanni multipli, si pagava solo quello che veniva sanato, con il dovuto giuramento da parte del paziente di non mentire e non simulare, ad esempio, di continuare a provar dolore per non pagare. Oppure era possibile “assicurare” il pagamento con un rimborso da parte del medico se la malattia fosse tornata entro un certo tempo dalla prima guarigione.

Si evince, quindi, l’incredibile aleatorietà del mestiere medico nella Genova medievale che, andando a braccetto con la rozza arte sanitaria, non può che farci propendere per un mestiere rischioso e poco remunerativo, dove spesso il paziente insoddisfatto poteva non pagare. Difficile capire l’entità degli onorari, ma il sospetto è che a Genova fossero ben miseri: un medico lo troviamo a pagare per evitare di vogare sulle galee (!!!), un altro è stipendiato per tenere calde le vasche dei bagni pubblici, un terzo medico in una “colonia” genovese viene pagato meno di un balestriere della guarnigione: non proprio cose per cui la mamma sarebbe stata fiera. L’altro aspetto che ci fa propendere per la scarsa ricchezza dei sanitari liguri è che alcuni esercitavano due mestieri insieme, ad esempio il medico e il notaio o il medico e mercante, cosa ben nota anche in altre città, tanto da ipotizzare l’origine del cognome “Medici” (che erano banchieri) proprio da questo dualismo non strettamente legato alla professione sanitaria.

Diverso il destino di coloro che diventavano medici di fiducia delle famiglie nobili o dei pontefici: tali sanitari contavano su uno stipendio fisso (che imponeva il curare gratis i familiari della casata) e che poteva essere ampiamente arrotondato dalle altre attività private (oggi diremmo intramoenia).

Il tardo medioevo e le fondamenta dell’Ordine dei Medici genovese

Abbiamo affermato che un medico che avesse voluto esercitare nel medioevo avrebbe potuto scegliere la strada del praticone empirico da bottega o provare a studiare ed ottenere una laurea. Nell’epoca rinascimentale, gli onorari dei medici sembrano decisamente crescere fornendo uno sprone in più ad intraprendere quest’arte, ma il numero dei medici rimane comunque troppo basso per coprire la popolazione. Si configura sempre di più, dunque, una medicina di base per gli indigenti, costretti a mettersi nelle mani di ciarlatani o della pietà religiosa, e quella dei ricchi, come avviene ancora oggi in nazioni con sistemi sanitari privati.

La sfiducia in cui incorsero i medici dopo la devastante pestilenza “Decameronica” del ‘300, in cui la sanità si dimostrò totalmente impotente (e senza maschere a becco), portò all’ascesa di altre figure professionali meno dotte o ad affidarsi sempre di più a metodi caserecci (come il decotto di cavolo in voga tra i mercenari tedeschi, come panacea di tutti i mali). In questo i medici genovesi, invece di aprirsi a nuove teorie e collaborazioni, fecero quello che ci si aspetterebbe oggi dai mugugnoni abitanti della riviera Ligure: si chiusero a riccio.

Consulti mediciMiniatura dal “Circa Instans” di Matteo Plateario , Francia, inizio XIV sec.

Partiamo dalla triste notizia che non era possibile “studiare medicina” nel medioevo a Genova. Nel capoluogo ligure una vera e propria facoltà nacque solo secoli più tardi presso l’ospedale di Pammatone. Insomma, bisognava “fare l’Erasmus” e andare a studiare fuori, ad esempio a Padova, per poi tornare. Esisteva però dal tardo ‘300 una sorta di Ordine dei Medici – il Collegium Medicorum – che ammetteva, previo esame su Ippocrate e Galeno, membri che avessero studiato almeno 4 anni e fossero genovesi, svantaggiando in vari modi i candidati forestieri (bello vedere come le cose non siano cambiate molto in settecento anni).

Tale Collegium, che a fine ‘400 contava una ventina di membri, secondo un saggio di G. Palmero sembrava più che altro interessato a formare una corporazione e mantenere i suoi privilegi che formare i medici liguri come un vero ateneo. Ed era prono a impedire che chiunque non fosse associato potesse esercitare il mestiere sanitario in città, spesso in contrasto con le disposizioni comunali. Nel 1481 fu emanato uno statuto deontologico atto a limitare l’attività del personale sanitario, ad esempio imponendo di non poter cambiare terapia al paziente senza prima averla concordata con il primo prescrittore o a non lavorare mai insieme a medici forestieri. I chirurghi, poi, non potevano visitare senza essere accompagnati da un medico del collegio e si chiedeva al comune di Genova di fornire cadaveri di indigenti condannati a morte per eseguire autopsie ed esercitazioni anatomiche, con buona pace di chi sostenesse che nel medioevo fossero proibite. A fine ‘500, i criteri di appartenenza al Collegio si fecero estremamente severi, andando persino a richiedere prove sulla residenza in Genova per lungo tempo dei genitori dei suoi membri, fino a divenire una sede di consorteria familiare quasi nobiliare.

Non solo maschi cristiani

In generale, il governo ligure di fine ‘400 iniziò a non interessarsi delle volontà accentratici del Collegium e favorì comunque l’esercizio della professione a medici forestieri di una certa validità.

In barba a chi ritenesse il medioevo un’epoca solo maschile, dobbiamo citare l’ampio contributo delle donne sanitarie. Le “vetule” erano una sorta di erboriste/ostetriche/guaritrici esperte, di una certa età, che operavano spesso nel mondo rurale. Più “nobili” e in veste di vere e proprie assistenti del physicus – spesso mogli e madri di medici – c’erano le “mulieres” esperte di arte sanitaria, tutt’altro che casi isolati nel medioevo: si vedano le “mulieres salernitanae”. In un’epoca dove la maggioranza delle donne sanitarie era comunque “specializzata” in ginecologia e ostetricia, fa comunque piacere tracciare l’immagine di un medioevo meno nero e misogino di quanto la propaganda post-illuministica ci abbia sempre parlato. Le ostetriche, poi, dominavano la scena del parto (e le levatrici il puerperio) senza intrusioni maschili, ed erano anche autorizzate alla (a quel tempo) terribile procedura del taglio cesareo, di cui recentemente abbiamo avuto una rappresentazione fin troppo truculenta nella serie HBO House of the Dragon.

In questi anni, in Liguria, vengono citate almeno due dottoresse donne: la “divina di Zoagli”, Teodora Chichizola e un’anonima dottoressa rapallina soprannominata addirittura “la profetessa”. Nonostante i titoli ricordino cartomanti da televendita anni ‘90, sono citate perché curarono parenti di dogi della Repubblica, evidentemente con perizia dato che a Teodora fu conferita l’esenzione dalle tasse per sé e i discendenti. I titoli altisonanti delle due dottoresse fanno pensare a quanto la medicina fosse ancora considerata un’arte divinatoria, quasi stregonesca.

E i medici non cristiani? I genovesi ebbero posizioni ambigue, da un lato associandosi ai sentimenti antisemitici di fine ‘400, dall’altro apprezzando le arti dei medici perlomeno ebrei, tanto da garantire loro salvacondotti e privilegi direttamente dal mondo politico. I testi dei medici arabi come Avicenna e Averroè, che Dante “salva” nella sua Commedia mettendoli nel Limbo, vennero poi di gran voga dopo le traduzioni dei loro testi in latino. Si trattava comunque di una medicina basata molto su Ippocrate (scambi tra il mondo greco e quello arabo erano avvenuti per secoli), contaminata dalla scuola di Baghdad e da quella andalusa.

In conclusione, il medico medievale genovese si muoveva in una dimensione di precarietà economica e incertezza, laddove non fosse divenuto membro del suo “club esclusivo”. Vedremo nei prossimi articoli chi invece esercitava la chirurgia, quali terapie erano prescritte e gli ospedali medievali a Genova.

Si ringrazia il sito “Genova Medievale” per aver pubblicato questo stesso articolo del medesimo autore.

Fonti testo:

  • Cosmacini, G., (2011) “L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi”, Laterza.
  • Balletto, L., (1986) “Medici e Farmaci, scongiuri e incantesimi, dieta e gastronomia nel medioevo genovese”, Collana storica di fonti e studi.
  • Palmero, G., (2007) Ars medica e terapeutica alla fine del Medioevo. Il caso genovese”, Nuova rivista storica.
  • Pesce, G., (1951) “I medici di bordo ai tempi di Cristoforo Colombo” Civico Istituto Colombiano.

Fonti immagini:

  • Miniatura europea di al-Rāzī nel libro tradotto da Gerardo da Cremona Recueil des traités de médecine (12501260) Reproduction in “Inventions et découvertes au Moyen-Âge”, Samuel Sadaune
  • Miniatura dal “Circa Instans” di Matteo Plateario , Francia, inizio XIV sec. – Londra, British Library

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